Non conosco molto il lavoro di Peter Medak. So che ha dato il suo meglio in qualche episodio di “Ai Confini della Realtà”. Conosco poco anche George C. Scott, il protagonista, il tipico attore con la faccia da sbirro, o da investigatore privato. Nei due film che di quest’ultimo ricordo, nel primo era impegnato in un’indagine nel sordido sottobosco del porno di infimo livello tendente allo snuff (“Hardcore”, 1979), intento a recuperare la figlia rimasta irretita in giri loschi, e nel secondo alle prese con Zodiac, o chi per lui, in quel curioso miscuglio religioso/noir che è “L’Esorcista III” (1990). Se lo volete sapere, credo sia un ottimo attore. Solido, fisico, imponente, con una di quelle facce corrucciate che lo rendono perfetto per ruoli finto-introspettivi.
Dopo i fasti dell’exploitation delle Grindhouse degli anni ’70, in cui il sesso e la violenza erano impiegati, guarda un po’, come elemento di rottura e le amputazioni avevano il rumore delle motoseghe, Medak, all’inizio degli anni ’80, complice anche la figura di Scott e i suoi trascorsi cinematografici, ritorna all’horror gotico, d’impostazione classica, introiettato nel protagonista che si porta dietro fisicamente il peso di dolori passati e riesce, solo con la sua mimica, a comunicare quella cesura, tipica delle ferite interiori, che si era ormai abituati a vedere solo attraverso gli squarci nella carne. Rappresentazioni agli antipodi. E certo è bizzarro, e tale dovette apparire ai contemporanei abituati a rasoi, fruste e trapani [dell’anno precedente, infatti, “The Driller Killer” di Abel Ferrara e lo stesso “Hardcore” avente Scott come protagonista), guardare un film dove non se ne versa neppure una goccia, di sangue.
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Senza Ghigno
Piccola curiosità, che però io ritengo interessante sottolineare, “The Shining” di Stanley Kubrick esordì al cinema a maggio del 1980. The Changeling l’aveva anticipato di tre mesi, essendo uscito a marzo. Stephen King, nominalmente e prima che il suo lavoro venisse rivoltato come un calzino, a fornire la sceneggiatura col suo romanzo; Russell Hunter, scrittore, sceneggiatore e compositore, invece, per ciò che concerne la storia alla base di “The Changeling”.
Entrambi i film si svolgono in dimore enormi: un albergo e una casa vittoriana abbandonata. Entrambi i film individuano in un uomo adulto con alle spalle un passato travagliato e di fronte a sé un futuro incerto, il protagonista ideale che diviene veicolo e bersaglio delle presenze malefiche che infestano le rispettive abitazioni.
Simile, per giunta, anche la tecnica delle riprese. E qui, probabilmente, mi attirerò qualche critica feroce. Eppure, le carrellate che introducono gli ambienti grandi e soleggiati della casa, al tempo stesso grandangolari e statiche, sono simili e molto ben realizzate.
Ma, si sa, Kubrick era un innovatore e avrebbe infarcito il film di trasudante simbologia, avrebbe sovvertito i canoni della fiaba nera, pur restando ancorato ad essi, avrebbe fatto sì che la luce terrorizzasse ancor più del buio e avrebbe consegnato alla storia il ghigno di Jack.
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Gli Angoli Bui
Lungi da me sostenere che “The Changeling” sia una capolavoro perduto oscurato da “Shining”, ma, sotto certi aspetti, si tratta dello stesso film realizzato da mani completamente diverse. Medak ci comunica l’orrore classico, fatto di angoli e stanze buie anche in pieno giorno, di rumori incessanti, di pianti e singhiozzi che si sanno provenire da stanze vuote e tuttavia abitate e, alla fine, mescola quell’orrore, quasi non volesse privare Scott del suo ruolo naturale, con un’indagine terrena, fatta di eredità contese, vecchi rancori e tutto il consueto strascico di attriti che tali peccati sepolti sono soliti portarsi dietro.
Scott, più che il suo ghigno, ci consegna il suo grugno.
Lui è John Russell e non è un pazzo come Jack, è un pianista che ha perso moglie e figlia piccola in un incidente d’auto. In casi come questi, di solito, si cambia vita.
Il musicista va ad abitare in una vecchia villa vittoriana nei pressi di Seattle. Ben presto scoprirà che la villa, restata disabitata per anni, è infestata da un poltergeist.
Di questo film ho trovato pochissimi aneddoti, uno in particolare è di quelli che la gente ama sentirsi raccontare davanti a un camino acceso, magari con un bicchiere di liquore tra le mani.
Sembra che lo sceneggiatore, Russell Hunter, si sia limitato a scrivere una storia da lui vissuta personalmente.
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Il Fotogramma
Sapete quello che si dice, no, sul girare o meno certi film? Che durante le riprese avvengano tante cose non proprio giuste. Oppure fenomeni non tanto inspiegabili, quanto particolari e per l’opportunismo col quale si manifestano e perché fanno ghiacciare il sangue.
Ieri, guardandomi il film, ho notato questo fotogramma (clicca per ingrandire):
Le due sono, nella finzione scenica, la moglie e la figlia del protagonista. Guardate i loro volti, le loro orbite nere e vuote, in una foto scattata in pieno giorno, e ditemi se non vi fanno effetto.
Ma torniamo al signor Hunter che, durante un certo periodo della sua esistenza si trovò ad abitare a Denver, in una casa nota come Henry Treat Rogers Mansion.
Una villa enorme affittata a un prezzo ridicolo perché nessuno, proprio nessuno voleva abitarci.
La storia vera segue pedissequamente le vicende e i colpi di scena del film, ragion per cui, se non volete anticipazioni, finite di leggere QUI.
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La vera Storia
Una settimana dopo che Russell si trasferì in quella villa (foto in basso), cominciarono a verificarsi strani e inquietanti fenomeni, più tardi indentificati da una sedicente medium, interpellata dallo stesso Russell, come tipici di un’infestazione maligna: un poltergeist. Tali fenomeni comprendevano rumori improvvisi e molto forti, tra cui anche quelli di vetri rotti, porte che si aprivano e si chiudevano da sole e quadri che cadevano dalle pareti.
Indagando sul passato della casa, Russell fu indirizzato da un uomo, la cui identità è rimasta ignota, ad approfondire la ricerca di ambienti nascosti nella stessa dimora. Cosa che lo portò a scoprire l’esistenza di una soffitta murata contenente le suppellettili e gli oggetti di uso quotidiano, compresa una piccola sedia a rotelle e una palla di gomma di colore rosso, appartenenti a un bambino di nove anni tenuto segregato a causa di una deformità fisica che l’aveva reso zoppo. La medium sostenne che il bambino fosse morto anzitempo impedendo così alla famiglia di riscuotere un’ingente eredità e che la stessa famiglia, per ovviare al contrattempo, l’avesse sostituito con un altro bambino adottato illegalmente e al quale avevano attribuito l’identità del loro vero figlio.
Sempre seguendo le indicazioni della medium, Russell riuscì a ritrovare il luogo di sepoltura dello sfortunato bambino, situato a sud di Denver, sul sito rinvenne un medaglione d’oro appartenente, senza ombra di dubbio, alla famiglia nella cui casa ora viveva.
Cambiato appartamento, Russell dichiarò che il poltergeist si era spostato con lui, perché quegli stessi fenomeni ora si stavano riproponendo anche nel suo nuovo appartamento. Il disagio continuò tanto da spingerlo a contattare un esorcista che officiò un rituale nella sua nuova casa che, pare, ebbe l’effetto desiderato, mettendo a tacere il fantasma. [fonte: WIKIPEDIA EN]
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Momenti gotici
Tale vicenda, alla quale si potrebbe pensare come a una trovata pubblicitaria, nulla toglie al fascino antico del film, tutto sommato coinvolgente anche se contenente svariate lungaggini. Il fantasma è raffinato e mai squallido, e veri momenti di tensione si provano durante la seduta spiritica e l’ingresso in soffitta. Calante nel finale, troppo perso dietro l’indagine poliziesca su un cold case, fa quasi dimenticare le motivazioni alla base dell’agire del protagonista. Dal canto suo, il lutto e l’introspezione iniziale, pur essendo motivi portanti, svaniscono nel nulla, esattamente come le paure suscitate da storie come questa. Durano solo uno splendido momento.
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