L’idea di aprire un blog può apparire attraente. Specie se ti piacciono certi film, tipo My Name is Bruce.
Stravedi per lui, Bruce Campbell, ci sei cresciuto con le sue battute e coi suoi film, hai provato a rimorchiare lucidando la tua mascella volitiva e pronunciando con voce vellutata, un po’ rude un po’ suadente, la frase del secolo: Dammi un po’ di zucchero, baby! E poi… e poi è stata la volta del tuo bastone di tuono. E lì qualcosa è andato storto. Troppo rude. La magia s’è interrotta. Da togliere esattamente come la tua mano finita sulle cosce… romanticismo al quadrato.
Nulla di cui preoccuparsi, però. Le cose andavano storte anche a lui.
Decidi di aprire un blog, allora, per parlare, un giorno, proprio di questo film che a te piace un casino. O almeno l’idea che di lui ti sei fatto.
Ma non è facile, aprire un blog. E tener duro ogni giorno, cercando qualcosa da dire, altrimenti il silenzio che ne conseguirebbe, in caso contrario, ti inghiottirebbe nel nulla.
Non deve essere stato semplice, per Bruce, scegliere di diventare un attore e, consapevolmente o meno, associare il proprio viso, il proprio personaggio, a un certo tipo di film.
Che poi, parliamoci chiaro, io avrei dato una gamba per stare al posto suo, ad affettare Demoni di Kandar con la motosega al posto della mano destra, e il Remington a doppia canna color blu cobalto nella sinistra. E lavorare con Sam e con tutte quelle attrici favolose. In quanto donne, almeno, favolose e attraenti; in quanto attrici, bah, non saprei. Ma che mi frega?
Sono io, al posto di Bruce, nel mondo di cartone, sangue e gomma dei b-movies, e sono un figo. Non c’è un motivo particolare. Ci sono le battute da pronunciare, quelle scolpite nella roccia, c’è il costume di scena, ci sono i mostri. E tanto basta.
Poi, mi sveglio. È stato tutto un sogno.
***
I’m a Man!
Ora, l’avrete capito che non sono il tipo contagiato dall’hype.
Non bisogna mai avere paura dell’hype, anche perché credo pochi al mondo, anche tra gli inglesi, sappiano di preciso cosa sia. Non sono neanche il tipo, appreso il nunzio fatale che stava per uscire “My name is Bruce”, che ha passato ore e ore a bombarsi il cervello nell’attesa di vedere il nuovo, ultimo capolavoro che capolavoro non è.
Mi guardo il film con la consapevolezza che quest’uomo, Bruce Campbell, e quella sua battuta da rimorchio, sono storia. Dammi un po’ di zucchero, baby! Dammi un po’ di zucchero, baby…
Un’eco testarda e agrodolce. Poi arriva la storia del demone cinese che deve vendicare i minatori cinesi morti. Un tizio con un vestito di gomma addosso, che è, come dice lo stesso Bruce, la vera natura dei falsi mostri del cinema: sono solo tizi con costumi addosso; una falce e gli occhi fiammeggianti che fa a fette due ragazze emo o goth o come diavolo si chiamano, e quasi fa a fette anche il ragazzo, fan sfegatato di Bruce e figlio di una MILF.
Prima senzazione gradevole di deja-vu, la mano mozza, rimasta attaccata alla tetta di Big Debbie.
Le mani mozze, Bruce e la sega elettrica hanno una ben nota affinità elettiva.
Finisci per auspicare: Vuoi vedere che…?
E arriva Bruce, impegnato sul set per girare qualcun altro dei suoi crappy movies, film merdosi, intitolato una roba come Cave Aliens 2, beve il piscio dell’assistente di studio dispettoso e vendicativo, ci prova con la scream-queen con l’accento dell’est e conia un altro dei suoi botta e risposta da incidere nella pietra:
“You’re disgusting!”
“I’m a man”
Lo adoro.
***
Leccate
E il film, “My Name is Bruce”, contiene, a sorpresa a dire il vero, un bel po’ di citazioni da quel mondo dei b-movies in cui siamo cresciuti. Non proprio quelle che tutti, soprattutto io, si aspettavano, ma altre, talmente nascoste che si ha bisogno di guardarlo una seconda volta, il film, per capirle.
Citazioni viventi, come Ellen Sandweiss, la Cheryl de “La Casa” e la Cheryl anche qui, che fa la ex-moglie a letto col suo manager Ted Raimi, fratello di Sam, e Timothy Patrick Quill, il fabbro de “L’Armata delle Tenebre”, qui il venditore d’armi. Quest’ultimo lo riconosci subito, mentre un po’ difficoltoso è capire che si tratta di quella Cheryl, senza che vengano tirate in ballo le matite e i demoni e gli alberi a possederla.
Bruce maltratta i suoi fan, gli storpi, i reduci, i ragazzini in bicicletta e le vecchiette al volante.
È sfacciato e sottile come un caterpillar con le belle donne, ed è convinto di far parte di un gigantesco scherzo organizzato dal suo manager come regalo di compleanno.
Ma Guan-Di, il dio protettore del tofu, è reale e decapita gli abitanti di Gold Lick a un ritmo spaventoso.
Cinema e meta-cinema, mescolati alla commedia degli equivoci. Gold Lick, la città mineraria è stata messa su in una proprietà di Bruce Campbell; ma è la finzione a rapirlo, perché lui, curiosamente, quale eroe di un mondo che non esiste, fantastico, è l’unica vera arma contro un mostro che non può esistere. L’aver sconfitto decine di demoni sul grande schermo fa di lui, attore mediocre, con alle spalle fallimenti personali e professionali, l’arma decisiva.
Tutto è stato creato appositamente per lui. A sua misura. Dalla camera della taverna che lo ospita, museo in miniatura colmo dei suoi cimeli, alla motosega, al bastone di tuono a doppia canna. Altrimenti, può tornarsene a ubriacarsi nella sua roulotte metallizzata, usando la ciotola del cane.
***
Eroe riflesso
E, da spettatore abituato al Bruce Campbell vincente e figo, è piuttosto spiazzante vederlo cinico, vigliacco e meschino, quando è chiamato ad affrontare una nemesi reale, riflesso di ciò che al cinema l’ha reso quello che è.
Bruce rifiuta la motosega, perché a fine giornata ci si accorge che è dannatamente pesante. Rifiuta il fucile a canne mozze. E si accontenta di una misera 45 dalla quale non viene neanche rimosso il cartellino del prezzo.
Perché è un Bruce a metà, quello che si vede. Sfrontato, ai limiti del buon gusto quando si lancia nel corteggiamento della sua partner co-protagonista Kelly (Grace Thorsen) e, allo stesso tempo, adorabile quando riesce a farla ridere e ad annusare il suo burro di cacao. Perché Grace è quello che da troppo tempo, ormai, mancava ai b-movies. Spero non sparisca.
Non mi ha neanche impressionato la capacità di Bruce di prendersi gioco di sé. Qualcuno la definirebbe autocritica mista a satira feroce.
Bruce, nel primo capitolo della sua esistenza cinematografica, era un Ash piuttosto pauroso, indeciso, in balia degli eventi. Poi Scotty muore. Scotty, era lui il vero grande. E Ash, è come se ne avesse assorbito la spavalderia. E, da eroe fasullo, copia di un vero eroe, la Casa (la n.2) lo deride. Lo deride la lampada, la testa del cervo impagliata appesa al muro, le porte e le finestre. Più presa in giro di così!
Qui beve una piscio-lemon, stesso colore di una bibita al limone, ma stranamente calda. Lui non se ne accorge perché per una star non conta tanto quello che si sta bevendo o mangiando, ma aver imposto il proprio potere sugli altri poveri stronzi che gli ballano intorno.
E lui riesce credibile come una finta star, un’imitazione, per di più fallita. Riesce al tempo stesso odioso e giocherellone. In due parole irresistibile.
Però, che occasione sprecata!
***
Il mondo dei B
Se vuoi fare b-movies ti devi tenere sotto il milione e mezzo e sperare, con l’uscita del dvd e le vendite del merchandising, di tornare in pari.
Dura lezione, che viene sempre da Bruce, che dispensa perle di saggezza, dal momento che il botteghino pare averlo duramente punito per questo suo omaggio.
La vita, per certi attori, si riduce a un pareggio. Prospettiva amara, veritiera. Di gran lunga preferibile al lieto fine posticcio, sullo sfondo di una casa americana, con moglie accanto e figlio bamboccio ammesso ad Harvard.
Finale confortante, come vedere un certo prato fiorito cinto con uno steccato bianco. Tanto, alla fine, si sa che i mostri stanno sempre in agguato, alle spalle, pronti ad aggredire dopo che qualche imbecille ha rotto il sigillo di costrizione.
Altre recensioni QUI