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L’Esorcista cinquant’anni dopo

In realtà sono cinquantadue anni che L’Esorcista di William Peter Blatty è stato pubblicato. Il libro e il successivo adattamento cinematografico di William Friedkin hanno cambiato per sempre tante cose. Dicono che abbiano cambiato il genere horror, in particolare. Forse. Genere che poi è stato cambiato altre innumerevoli volte.
Ma veniamo a noi, L’Esorcista l’ho letto decenni fa, come decenni fa ho visto il film.
Entrambi mi hanno cambiato.

Il terreno fertile, ovviamente, è stato la mia educazione cattolica. Forse è stato lo stesso terreno che, negli Stati Uniti, l’ha fatto diventare un fenomeno di massa. Se avete tempo, a questo riguardo in coda all’articolo vi metto il link con le testimonianze di chi l’ha visto nel ’73, in sala, ed è svenuto). Educazione cattolica, dicevo, vissuta tra l’altro in un territorio, l’Italia meridionale, dove pure esiste una cultura sotterranea, nascosta ai più e dalla maggior parte non riconosciuta, fatta di santi e soprattutto di demoni. I demoni sono, più dei santi, la migliore prova dell’esistenza di Dio, attraverso il male che operano.
Perché non fanno altro che quello. E sono molto, molto operosi a riguardo.

Ragion per cui la visione di una bambina posseduta dal demonio, e soprattutto la “scena del crocifisso”, mi hanno accompagnato per anni, come un’infestazione.
E vorrei tanto dire che, oggi che mi definisco razionalista, il fascino di questa storia sia ancora nella metafora dell’abuso sessuale (che Regan avrebbe subito) e della violenza della società, sublimate simbolicamente attraverso la possessione diabolica (che altro non sarebbe che un artificio letterario), ma no… il fascino, tutto il fascino, sta nel diavolo.
Proprio come disse Friedkin: non ci sono metafore o simboli, c’è il diavolo e una ragazzina posseduta. Fine della storia.

Non c’è spazio per il contraddittorio, via via ogni ipotesi scientifica e razionale viene accantonata: Regan è invasata da un demonio, una forza antica, sovrannaturale e potente. Estremamente potente.

Pazuzu, ovviamente, che è precedente al cristianesimo.

Sono passati decenni, appunto, e io sono diventato un uomo adulto. E sotto sotto spero di non avere mai a che fare anche solo con l’eventualità di sfiorare dal vivo un fenomeno di possessione (vera o presunta, ciò che conta è l’effetto dirompente che provoca la visione di una/un possedut*), mi sono ritrovato in tutti questi anni alle prese con la fatale domanda: L’Esorcista fa paura?
La maggior parte delle risposte dicono “Affatto, anzi, mi fa ridere”. “E comunque Regan non mi spaventa.”
Meritate un biscottino.

E no, questo non è il tipo di articolo che vi spiega perché invece dovreste averne. Ognuno ha la propria sensibilità in merito.
Come dicevo sono cresciuto, e L’Esorcista è ormai incapace di privarmi del sonno come ha fatto quando ero bambino.
Oggi la sua rilettura mi ha regalato un piacere sopraffino, invece.
William Peter Blatty è un autore. Il suo stile è pieno zeppo di ciò che oggi definiremmo – in modo arrogante e piuttosto superficiale – errori: salti di POV, narratore onnisciente, spiegoni assortiti. Una narrazione affastellata, che da professionista definirei “un casino incredibile”.
Eppure, eppure… darei volentieri un braccio per poter avere la sua abilità affabulatoria.
Di fatto il suo romanzo è l’unico testo – a tutt’oggi – a riuscire a generare ansia nel sottoscritto. Pur conoscendone la storia a menadito.

Un tempo erano le parti forti – c’è chi a ragione ha definito le scene narrate da Blatty molto più tremende rispetto a quelle del film – soprattutto la scena in cui Regan scende in cucina urlando, sostenendo di essere inseguita da Capitan Howdy, che s’è messo a tormentarla e a dire che la vuole uccidere (tutta lasciata all’immaginazione del lettore), e poi la seconda, in piena possessione, in cui, dopo aver fatto la sua camminata da ragno, a testa in giù e essere scesa dalla rampa di scale (scena compresa nell’edizione integrale del film), Regan, lingua serpentina di fuori, segue l’assistente della madre per tutta la casa, come fosse un cane…

Oggi, dicevo, l’orrore insuperabile è nella parte antecedente: nella malattia della bambina.
Che irrompe nel quotidiano e quindi nella vita, portando la catastrofe.
La malattia è una cosa che verosimilmente capiterà a tutti di affrontare: che sia personale o di un proprio caro, essa si annuncia in un giorno come un altro, mentre voi o i vostri cari siete impegnati, che so, a fare la spesa, a cucinare, a fare colazione, a lavorare. E, con cattiveria inaudita, cambierà tutto.
Il vero orrore è lo stravolgimento del quotidiano, il senso di impotenza nei confronti dell’ammalato, la mancanza di scopo che investe ogni altro aspetto, quando ci si concentra con tutte le forze sulla guarigione del malcapitato, la frustrazione di non vedere progressi e – soprattutto – il senso di colpa che assale allorché ci si permette, in pieno delirio, di concedersi distrazioni e pensieri frivoli.
La prima metà dell’Esorcista è “solo” questo: il vero orrore, quello assoluto, che abbatte ogni convinzione, ogni polemica, che annienta ogni aspetto superfluo e accessorio della nostra esistenza e ci pone di fronte alla drammatica consapevolezza che la malattia può concludersi, a fatica, in due soli modi. A netto vantaggio del peggiore.

Leggere di Regan visitata da “centinaia di dottori” che, diversamente da Karras, ignorano il terrore di Chris concentrandosi solo sui sintomi e non sulla “piccola morte” che ha coperto sia la piccola che tutti i suoi affetti.
Leggere della serenità che Padre Merrin porta dentro quella casa sprofondata in mesi di incubo solo ed esclusivamente con la sua presenza, e con la sua capacità di ascoltare la paura degli altri. Di comprenderla e di rispettarla.
In quel caso l’Esorcista cessa di essere una storia sul sovrannaturale e torna a essere un dramma umano sulla comprensione del dolore. Così difficile non tanto da riconoscere, ma da voler vedere e ascoltare.
Il dolore va assorbito, anche quello altrui, e rispettato. Per poterci costruire qualcosa intorno. Perché esso non andrà mai più via.
Una volta che siamo così fortunati da averlo scacciato nel migliore dei modi lascerà cicatrici e vaghi ricordi, quell’attesa ineluttabile che lo vedrà sempre in agguato, a tentare di assorbirci e strapparci al nostro quotidiano.

E poi sì, c’è la scena del letto che levita, del crocifisso, la voce distorta di Regan (“sembrano muggiti”) e la messa in scena di un male atavico e insaziabile, il male puro, e le suggestioni del peccato e della fede, ma quello è folklore, è decorazione, religione, se ci credete: ma il vero protagonista dell’Esorcista è il dolore assoluto.

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The Exorcist cultural impact

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