Cinema

Predator e PREY, qualche delirio sparso

E così, capita una di quelle serate in cui… ti mettono sul divano a guardare Prey.
Ok, se siete qui sapete già di cosa si tratta, è l’ultimo – in ordine di tempo – episodio del franchise di Predator.
Andava fatto per forza?
Beh, il fatto è che, dietro l’invenzione del franchise (in generale), c’è pure questa clausola succulenta che prevede che sì, ogni tot un nuovo film appartenente a questo universo narrativo va fatto, sapendo già di andare incontro a tutta una serie di seccature. Più o meno tutte incarnate dal fandom.

Esistono due versioni di Prey, una in inglese e l’altra doppiata (solo doppiata, peccato) in lingua comanche. È cosa buona e giusta, anzi, io ne avrei girata una sola, solo in lingua comanche. Ma trattandosi di figli dell’Oscar il fatto ha del prodigioso, quindi prendiamolo come un’illuminazione sulla via di Damasco nell’era dell’internet, dove i linguaggi sono miriadi e tutti loro hanno una dimensione e un fascino propri. Il fatto che di là dell’Atlantico stiano cominciando ad accettarlo è solo opportuno.

E no, rassegnatevi, io credo che non vedremo più per un bel pezzo il solito branco di berretti verdi ipertrofici e armati con mini-gun che svuotano interi caricatori su niente. Quello c’è già stato, l’abbiamo amato, e nessuno ce lo toglie. Bellissimo ancora oggi, tra l’altro. L’avete rivisto di recente, per caso? Ma… ora vogliamo vedere altro. Lo pretendo. E vi dirò, mi andava proprio di guardare l’America prima che fosse “colonizzata”. Perché è ignota, perché è affascinante, perché è ricca di storie che vogliono essere narrate. E tanto basta.

Poi sì, trattasi del classico film contemporaneo, studiato a tavolino. Dovete pensare che non c’è nulla, nella sua ora e tre quarti circa, di Prey che non sia stato pianificato. Nulla.
Ogni vestito, ogni trucco, ogni dialogo, ogni situazione è stata stabilita in modo da risultare “amichevole e conveniente”, in modo da azzerare i rischi. Essendoci poi la banda del topo – da qualche parte – alle spalle, non poteva essere altrimenti. Ma Prey, oltre che pianificato è anche intelligente. Non ho nulla contro la pianificazione, ma, come ripeto spesso in Chiodi Rossi, essa ha sottratto al cinema quel suo lato incosciente e avventuroso di raccontare storie. Oggi, con investimenti di decine di milioni di dollari, quel modo di fare cinema è un mondo che non c’è più. È con questo, più che con tutto il resto (il cambio della sensibilità coeva e dei valori sociali, inarrestabile e naturale) quello con cui noi un tempo piccoli spettatori ormai diventati adulti dobbiamo venire a patti. Per forza. E possiamo anche trovarlo piacevole, perché no, persino divertente.

Amber Midthunder (Naru) è la preda. Grazie, datele altri ruoli, per favore. Subito. E per un’ora e venti regge e divide lo schermo con Dakota Beavers (Taabe), suo fratello nel film. E col suo simpaticissimo cane. L’accampamento comanche è minacciato da un predatore, un leone di montagna, un orso o, chissà…
Come nella migliore tradizione, Predator è la messinscena di una caccia. Grossa. Molto grossa.
Vi dicevo che Prey è messo in piedi con intelligenza. Sì, ed è questo che lo rende buono, molto buono. Perché si prende il lusso – e il rischio – di inserire citazioni e rimandi al primo capitolo, senza essere stucchevole. Anzi, l’operazione è talmente sopraffina che bisogna ragionarci su un pochino, per coglierle, qua e là. Pensate un po’. E questo, dopo dieci anni di strizzatine d’occhio a valanga, in tutti i franchise, senza un briciolo di classe e/o senso, è oro colato. Stiamo contando le perle. Grazie, Dan Trachtenberg. Davvero.

Infine, menzione speciale per il Predator. Circa trecento anni lo separano da quel “brutto mostro schifoso” che faceva a cazzotti con Arnold, venendone travolto. Preda sbagliata.
A pensarci, il Predator sceglie sempre la preda sbagliata. Un fallimento evolutivo. Ma non divaghiamo: il Predator nel 1700 circa si concede un look tribale, adornato soprattutto di un teschio di una sua vecchia preda, che dicono essere un “river ghost” del dimenticabile film del 2010. Ma, per l’appunto, è solo una maschera, tutta la tecnologia dell’alieno cacciatore è come da tradizione, come la sua morale, o la sua intelligenza. Ovvero, è sempre il solito scemotto che sbaglia bersaglio. Ma noi gli vogliamo bene anche per questo.

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