Parliamo di creazione…
Creazione dell’opera d’arte. E di Arthur C. Clarke.
E di Michael Moorcock e Stanley Kubrick.
Ma non corriamo.
C’è un che di abusato, nella parola creazione, di ingiustificatamente romantico. E la colpa, credo, sia tutta del cinema.
Di certo cinema, quello biografico. Che adorna scene tratte dal quotidiano con colonne sonore evocative e fonda esso stesso sulla pretesa, tanto assoluta quanto arbitraria e arrogante, che la vita di un personaggio famoso, che ha realizzato questo e quello, debba essere per forza di cose interessante e piacere al pubblico.
Cosa c’è di peggio di due ore di vita quotidiana di Frida Kahlo interpretata da Salma Hayek? Due ore di vita quotidiana di Stephen Hawking ne La Teoria del Tutto.
E personalmente stimo moltissimo entrambi, ma non mi va di conoscerli.
Ah, è altrettanto ovvio che dietro i film biografici c’è un profondo lavoro di scrittura, che molto poco lascia alla realtà dei fatti.
Questo perché la vita, quella vera, è noiosa.
E l’arte è nient’altro che costruzione e pianificazione, e ben poca ispirazione del momento.
La vita è fatta di mal di testa, di dolori addominali, pruriti, scoregge, e tutto il campionario di volgarità naturali di cui disponiamo in quanto esseri biologici che come carburante usano altri esseri biologici. Piante comprese.
Però siamo anche artisti. Ci siamo inventati di sana pianta l’arte. Probabilmente per dare un senso a tutto questo spazio e a tutto questo tempo.
Il giorno dopo l’arte, hanno inventato la critica.
Ma questa è un’altra, spiacevole storia… l’affronteremo un giorno. O magari no, chissà.
Dicevo dell’arte…
Quando penso all’arte come manifestazione della creazione umana, mi viene sempre in mente Gerard Depardieu diretto da Giuseppe Tornatore.
Non bisognerebbe mai incontrare i propri miti. Visti da vicino ti accorgi che hanno i foruncoli. Rischi di scoprire che le grandi opere che ti hanno fatto sognare tanto le hanno pensate stando seduti sul cesso, aspettando una scarica di diarrea. (Una pura formalità)
Perfetto, perché l’assunto è che le nostre vite sono normali, e non sono interessanti. O almeno non dall’angolatura da cui ci piace guardare di solito.
Leggevo un articolo firmato Michael Moorcock, ve lo linko qui, perché ne vale la pena.
Narra la sua versione della storia.
La storia dietro a 2001: Odissea nello Spazio.
La storia del rapporto difficile, per usare un eufemismo, tra Arthur Clarke e Stanley Kubrick.
Ed è bellissimo, soprattutto quando Moorcock scrive:
If Arthur was disappointed by Kubrick’s decision to cut his dialogue and narrative to the bone, he was eventually reconciled by being able to put everything left out of the film into the novel, meaning that each man was able to produce his own preferred version.
Ovvero, Clarke, essendo riuscito a scrivere nel suo romanzo tutto ciò che Kubrick aveva tagliato dal film, la voce fuori campo dello scrittore che spiegava i passaggi, aveva recuperato fiducia e piacere nella sua opera, aveva persino rivalutato il film. Per quanto all’inizio, per essere stato cancellato senza preavviso, si fosse giustamente incazzato.
Questo perché Kubrick trattava di materia visiva, Clarke di materia scritta. I due media possono confondersi, ma ragionano su discipline diverse.
È bello conoscere questi retroscena? Il fatto che Clarke corse via in lacrime allorquando scoprì, alla prima proiezione, che la sua voce era stata brutalmente tagliata via dal film?
Non tanto, in effetti, non sono le lacrime di frustrazione di Clarke a interessarci, quindi non la vita vera; non è quello il punto di forza dell’articolo, quanto seguire il pensiero di Moorcock, le sue deduzioni, la sua testimonianza: il suo onesto confessare che non era per niente interessato nelle esplorazioni spaziali all’epoca e quindi del film di Kubrick sticazzi… seppure quella immensa fucina che era il set di 2001 spingeva a appassionarsi e a prepararsi a partire verso Giove.
Ma era tutto finto, per quanto l’impressione fosse quella che stessero davvero preparando un’astronave.
Arte contro vita. O meta-vita.
Da vicino, Kubrick era uno che ti osservava da dietro i suoi occhialetti, con quello sguardo da gufo incazzato, e ti faceva scortare fuori dal set, sebbene un anno prima ti avesse contattato, in qualità di autore, per finire quel lavoro che il povero Clarke non riusciva a finire.
Parlo di Moorcock, ovviamente, cacciato via dal set, nonostante avesse un pass.
Kubrick’s eyes went straight to me and did not leave me as he spoke brusquely to the publicist.
“Get these people off the set,” he said.
We were never face to face again.
Ecco la vita. Ecco com’era Kubrick dal vivo. Una persona schiva, diciamo, per non usare altre parole. Poco piacevole.
Come siamo noi tutti.
Afflitto magari da mal di testa, indigestione, paranoia, ansia, scazzi vari. Non so, ipotizzo. Come le persone di cui scriveva Bukowski, che non erano i geni, quelli nati per creare, si capiva subito dal sentore di sfiga da vita vera e travaglio che si portavano addosso, che non erano eroi, quelli lì.
E non è bello leggere aneddoti di vita privata, a meno che, come nel caso di Moorcock, non siano filtrati dal punto di vista originale, e posteriore, di un altro artista, che non fa altro che raccontare una storia.
Solo che, a quel punto, la vita cessa di essere tale e diventa una versione rielaborata, costruita, ragionata e commentata. È arte.
E sta qui la differenza, tra l’arte e la vita. Ed ecco che, per ragioni romantiche, io mi trovo a preferire sempre e comunque l’arte, sulla quale abbiamo sempre il controllo, per quanto ci piaccia fantasticare sull’ispirazione che tutto travolge e tutto libera.
Cavolate romantiche, appunto.
Mi ritengo fortunato. Ho vissuto e vivo a stretto contatto con altri autori.
Sì, ok, bla bla bla… ma non è un post-marchetta, il qui presente.
È solo un ragionamento.
Inutile nominarli, i miei colleghi. Ma una cosa la debbo dire: ho assistito a decine e decine di fatti simili a quelli raccontati da Moorcock. Ho assistito in diretta alla nascita di certi personaggi che vi hanno fatto sognare e so per certo che, in qualche caso, dietro c’era ben poco lirismo.
E magari, in futuro, toccherà a me scrivere un articolo come quello di Moorcock, parlando di qualche mio collega e amico, per sgombrare il campo da teorie da film biografico, pretenziose e facilone, dicendo come stavano le cose davvero, per amore della verità e della vita.
E, soprattutto, per amore dell’arte.