C’è sempre, a proposito dell’arte, quel famoso interrogativo…
In un lontano futuro, quando avremo perso le tracce della nostra civilizzazione e la futura società dominante effettuerà scavi archeologici per studiarci, cosa capirà delle tracce che avremo lasciato dietro di noi?
Rinvenendo un joystick logoro e impolverato, semidistrutto, comprenderà lo scopo di tale artefatto?
E soprattutto, lo considererà arte?
Daniel Arsham, da Cleveland, Ohio, prova a immaginarlo con le sue sculture.
Siamo in un sogno post-apocalittico, dove le vestigia dell’umanità parlano per noi.
Al solito, è probabile che la pop-art, proprio per la sua natura di copia della copia della copia, sia la sola traccia che lasceremo.
Molto più probabile infatti che sopravviva una lattina di Coca-Cola, riprodotta in centinaia di milioni di esemplari, piuttosto che il David di Michelangelo, unico e solo.
È un discorso di quantità. E di estetica.
È la summa dei nostri valori e disvalori, insieme.
Arsham gioca col nostro lascito. Immagina un’auto, la sua carcassa, inglobata dalla polvere. Dopo di noi resteranno milioni e milioni di auto distrutte, alcune delle quali, di sicuro, naturalmente acconciate e tali da sembrare installazioni per qualche mostra.
E poi caschi di motocross, macchine da presa, orologi cafoni e ammassi di rottami.
Tutti ricostruiti, estratti dal loro consueto contesto e esposti. Traslazione concettuale. Qualcosa che avrebbe mandato ai matti i protagonisti delle Vacanze intelligenti.
Ma di sicuro molto bello da vedere. E su cui riflettere, almeno un pochino.
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