Ecco, l’unico blog in cui Hell recensisce Hell, di Tim Fehlbaum.
Tutti ridono.
Di questo film mi ricordo un fotogramma, o forse un teaser di una ventina di secondi. Ennesima variante apocalittica, in un mondo in cui le tempeste solari hanno fritto le apparecchiature elettroniche e innalzato la temperatura di dieci gradi.
Gioco della sopravvivenza, con diversi punti di pregio, che deraglia nella seconda parte.
E a cui manca, in sostanza, la cattiveria.
Grave difetto, per un film di questo tipo.
Si inizia in auto, un’auto coi finestrini coperti da giornali e cartoni. Perché la luce diretta fa male, la terra è riarsa e cosparsa di cadaveri di animali. Le piante muoiono.
Un uomo al volante, una donna accanto e una ragazzina sul sedile di dietro. La ragazzina trova un CD. Funziona ancora. È di Nena, coi suoi 99 luftballons.
E la vita, nonostante sia un inferno arido, è bella.
La solita magia dell’apocalisse, che rende desiderabile una tranquillità e un silenzio che hanno il sapore della fine. Eppure, almeno per un secondo, vorremmo stare in quella macchina, a combattere e sopravvivere, e sentire canzoni che non c’entrano nulla, fuori tempo, fuori luogo, odiose perché allegre e false.
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Si giunge a una stazione di benzina, titoli di giornali abbandonati spiegano al realtà delle tempeste solari.
Si cerca il carburante e qualche genere di prima necessità, stessa atmosfera polverosa e accecante di Mad Max.
L’idea dei superstiti, folle, commerciale e bellissima, è raggiungere le montagne, le montagne dell’acqua Evian. Vi giuro che è così. Pubblicità occulta o meno.
Sono convinti che lassù ci sia ancora l’acqua. E uccelli in cielo glielo confermano, in un mondo in cui non ci sono più animali perché morti quasi tutti.
A pensarci, anche questo è realistico. A parte gli insetti e i topi, gli esseri umani sono una delle specie più diffuse del pianeta. Facile pensare, per mero calcolo progressivo, che sopravviveremmo agli animali da cortile, ai cani, ai gatti, solo per il nostro numero. Aprendo uno scenario ben preciso.
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Non si conosce la sorte dei mari. Se esistono ancora o no. Nessuno ne fa riferimento. L’idea che mi sono fatto, comunque, è che in un mondo in cui spostarsi diventa oggettivamente un’impresa, il viaggio della speranza si trasforma al massimo in una gitarella fuori porta. Raggio d’azione limitato, quindi. Ci può stare.
Altro dettaglio che ho apprezzato è l’escursione termica.
In un mondo desertificato, la notte fa freddo quanto di giorno fa caldo. Un inferno che non conosce tregua, quindi.
Spettacolari gli squarci sui campi deserti, o cosparsi di carogne decomposte, così come le foreste spoglie, coi tronchi a tagliare lo schermo, grigi, fumosi e lividi.
Fotografia filtrata, ipercromatica o desaturata. Per una volta, fa il suo lavoro, dando all’immagine realismo anziché renderla posticcia.
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La parte debole arriva nella foresta, allorché i superstiti incontrano un altro gruppo. Come dicevo prima, quando frutta e animali scarseggiano, restano poche alternative alimentari. Il discorso pare accettabile, quanto sciatta è la realizzazione.
La regia abbandona il tocco per mettere in piedi una mezz’ora di confusione assortita. La sensazione è che il film sarebbe dovuto durare una mezz’ora in più e sia stato contratto. Magari sono stati operati dei tagli, chissà.
Comunque, film apocalittico che diviene una specie di survival horror, in cui si gioca al massacro dei protagonisti.
Ma… con poco gusto, senza cinismo e con tanta, troppa retorica.
La crudezza spaventa, è scomoda, ma in paricolari circostanze, e generi, è inevitabile. E non capisco perché si indulga, al contrario, nel facile arrangiamento, anziché nel realismo che vorrebbe una messinscena del genere.
Quindi la cattiveria è stemperata, in luogo di una fuga rocambolesca, e di una doppia scoperta finale, che lascia esterrefatti, in negativo. Perché sa di premio partita. Di regalo fatto da una sceneggiatura molle ai protagonisti.
Ritorna a quel punto l’immagine della bottiglia di Evian e la prospettiva del paradiso perduto.
E non ci si crede.
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