Stamattina mi sono svegliato, ho fatto colazione, mi sono lavato.
Appena uscito di casa ero già stanco. Abito in un complesso residenziale comprensivo di quattro grossi condomini dalle pareti rossastre, coi bordi grigio chiaro. I palazzoni affacciano su un cortile interno comune, quadrato, largo abbastanza da ospitare un ampio prato, decorato da siepi e cespugli in fiore. Cammino sotto il portico che costeggia il cortile fino all’angolo, dov’è il trespolo con le cassette della posta. Sono trasparenti, la mia è colma. Ci scorgo, prima ancora di aprire, una busta verde e una rosso ruggine.
È quella rossa ad attirare la mia attenzione.
È coperta di scritte, come l’altra, ma il colore non preannuncia nulla di buono. Non è arrivata col postino, è stata imbucata a mano.
La prendo e scorro il muro di testo. Ben evidenziato c’è il numero 6, sottolineato a penna, più volte.
Il mittente è il padrone di casa, sono 6 mesi che non pago l’affitto.
È datata Giugno 2017.
Ora, penso, siamo ad Agosto, quindi l’affitto non lo pago da 8 mesi, non sei, ma nel frattempo il locatore non s’è più fatto sentire, forse è andato in vacanza, forse sta aspettando i termini legali per richiedere un’ingiunzione di pagamento, o forse, meglio ancora, sta cercando di ottenere quanto dovuto, visto che, non avendomi messo sotto contratto, i suoi guadagni sono in nero.
Bella storia. O brutta.
Sull’esterno della busta c’è scritto anche che, d’ora in avanti, eviterà nel relazionarsi con me, quella cordialità che aveva contraddistinto gli inizi del nostro rapporto di locatore-locatario.
Dentro la busta, invece, ci sono delle caramelle, dolciumi vari.
Una cosa normalissima.
È d’uso, infatti, da queste parti, scrivere il messaggio sulla busta, e riempirla di doni e omaggi, per propiziarsi in ogni caso la trattativa.
La somma è 642,97 centesimi. Sei mesi d’affitto.
E no, non è un problema, quella somma posso pagarla tranquillamente, solo che… davvero… ho dimenticato.
Completamente dimenticato.
Ho pensato, tornando indietro verso il mio appartamento, che sarei passato al bancomat a prelevare e avrei saldato, tentando di scusarmi il più possibile col padrone di casa, un omone alto, brizzolato, che per campare insegna educazione fisica.
E che, di sicuro, non avrebbe creduto a una sola parola di quanto gli avrei detto. Per una dimenticanza patologica avrei rovinato un bella conoscenza.
E poi mi sono svegliato.
L’orologio segnava le 6 e 21.
E, davvero, per circa mezz’ora, ho avuto nettissima la sensazione di dover provvedere a questo mancato pagamento. Sforzandomi, mentre pian piano uscito dal dormiveglia, di capire quale fosse l’appartamento per il quale avevo mancato di versare l’affitto.
Passando al setaccio la mia vita, le varie attività che svolgo e che esigono tributi da versare, e rendendomi conto che no, non avevo nessun affitto da pagare.
Era stato un sogno.
Ma un sogno così lucido che sembrava una realtà parallela.
Una realtà parallela in cui gli affitti costano poco (sei mesi per 642,97 di chissà quale valuta non sembrano una cifra eccessiva), c’è un clima uggioso e umidiccio, ma le piante sono floride.
In cui è normale scrivere il contenuto delle lettere fuori, e dentro le buste ficcarci regalini.
Una realtà in cui avevo degli obblighi, ma chissà come i piaceri erano stati tali e tanto divertenti (non robe per cui sballarsi, ma semplice esistenza felice) da farmi dimenticare completamente di pagare l’affitto.
Otto mesi, e ancora nessuno aveva fatto ricorso a minacce e/o recupero crediti.
La cosa strana è che mai mi era capitato di faticare così tanto, una volta sveglio, a distinguere gli obblighi immaginari da quelli reali.
Cazzo, per mezz’ora davvero ho creduto di dovere 642 euro a qualcuno. Qualcuno di cui conoscevo perfettamente l’aspetto.
Incredibile.
Anche perché, coincidenze o meno, proprio qualche giorno fa avevo adocchiato un articolo in cui si ipotizzava che, dal momento in cui noi esseri umani trascorriamo circa venti anni della nostra esistenza dormendo, il sogno può in effetti essere considerato, a tutti gli effetti, una realtà parallela.
Ecco, credo di esserci appena stato.
E il mio altro me non se la passava poi tanto male, a parte i problemi di memoria.
Certo, aveva fatto scelte di vita che sono opposte alle mie: stabilirsi in un luogo umido, a contatto con decine e decine di famiglie, in palazzoni che garantiscono poca intimità, ma era felice, viveva con una ragazza (di cui ignoro aspetto e nome, ma sapevo che c’era, stava ancora dormendo) e aveva di che mantenersi.
La normalità di una vita aliena, strana, diversa, ma plausibile.
Ok…
Diciamo che è la classica storia intrigante, come quella di Lerina Garcia, che si svegliò una mattina per recarsi al suo ufficio – dove lavorava da vent’anni – con la sua auto solo per scoprire che non lavorava al terzo piano, ma al quarto, in un dipartimento completamente diverso, sotto un direttore mai visto prima, che però la conosceva benissimo.
O quella del viaggiatore di Taured, fermato all’aeroporto di Tokyo, in possesso di documenti, carte di credito e altre svariate tessere perfettamente in regola, ma rilasciate da un paese europeo mai esistito. Eppure lui sosteneva che Taured fosse un paese vecchio almeno mille anni…
Oppure quella di Luciano, che imbocca una svolta in galleria, per arrivare puntuale a lavoro, ma si ritrova in una realtà che duplica esattamente la sua, ma in senso grottesco e orrorifico…
Magari su queste cose ci torniamo, che dite?