Underground

La realtà è ciò che si rifiuta di sparire anche quando hai smesso di crederci

Philip K. Dick lo capisco anche troppo bene. E lo invidio.
D’altronde, uno che si prende il lusso di sognare con anni di anticipo la propria morte bisogna invidiarlo per forza.
Ma non è solo questo, è la caparbietà con cui affrontò la scrittura.
Senza tanti sofismi, senza raccontarsi storie. Voleva scrivere e per farlo doveva scrivere e basta. Per cui, niente più negozio di dischi, lavoro mollato, lavoro trovato.
Scrivere e vendere, per continuare a scrivere.
Dicono che fosse la Voce, quella che, decenni prima, gli aveva suggerito tutte le risposte di un test, facendogli prendere il massimo dei voti. O l’LSD, che espandeva le sue percezioni, anche se lui stesso, ridacchiando, diceva che era una diceria, una storia che gli faceva comodo: negli anni Sessanta le droghe andavano di moda, se dicevi di non drogarti ti guardavano storto. Un artista doveva drogarsi, per essere normale e normalmente accettato.
Dopotutto, gli artisti erano quelli che andavano contro il potere, quelli spiati dai servizi segreti, quelli sovversivi.
Bei tempi, cui si guarda con una certa nostalgia, come alla Guerra Fredda.
E, forse, Dick… lui voleva apparire normale almeno in quello, perché per il resto, tutto ciò che faceva era scrivere.

No, dico, scriveva e basta.

È un argomento che abbiamo affrontato spesso, su queste pagine. Quanto possa essere monotona la vita di chi scrive.
E anche pericolosa, dal punto di vista metabolico.
Ore e ore seduti a compiere una serie di piccoli movimenti ritmici e cadenzati con le dita. E poi, assumere le droghe socialmente accettate: tè, caffè, etc.
Dick ridacchiava, sempre in quell’intervista famosa, sulle mode del tempo, e diceva che avere una cattiva fama gli faceva comodo, ma che l’LSD l’aveva preso giusto un paio di volte. Le visioni gli arrivavano direttamente dall’altrove, o altroquando, o cose così…

Però l’anfetamina, quella sì, l’assumeva. Il perché è presto detto.
Ora come allora, scrivere fantascienza equivaleva a scrivere pornografia, per certa gente. La differenza è che quando Dick ha iniziato, la cosa non dava fastidio a chi queste cose le commercializzava. Stampate su carta scadente, con copertine a base di mostri irsuti e dai grandi occhi e donzelle in difficoltà. Non c’era ipocrisia.
Se scrivevi fantascienza, quello era il prezzo da pagare, in termini di (cattiva) fama.
E se scrivevi altro tipo di letteratura, peggio ancora, non eri capito né dagli uni, né dagli altri.
Oggi la fantascienza è ancora, per certi versi, pornografia, insieme all’horror, al fantasy e a tutto ciò che, in generale, contiene l’elemento fantastico, solo che viene confezionata bene, si dà delle arie. E continua, per lo più, a darsele da sola.
L’anfetamina serviva per scrivere tanto.
Perché la fantascienza era pagata poco, un centesimo a parola. Per campare scrivendo, si doveva scrivere molto.
42 romanzi, 16 dei quali scritti in cinque anni.
Scriveva come un matto.
Però ci campava.
Anche se aveva una vita noiosa. E non navigava nell’oro. Perché era comunque poco, quello che ricavava. Un’esistenza angustiata dall’incertezza econimica.

Noiosa perché non era instagram, allora. Anche se, seguendo la logica dell’LSD, forse, oggi Dick avrebbe avuto un account social come tutti gli altri, e avrebbe fatto credere di postare tanto e di essere un figo, avrebbe costruito un simulacro della sua vita. Tanto, esattamente come la sua professoressa, il cui ciarlare meccanico e assorto lo convinse che dovesse trattarsi di un robot, una vita su instagram o facebook non è una vita vera, ma un simulacro – in teoria migliorato – della stessa. Una copia, che funziona a ingranaggi. Potenzialmente inceppabile.
Nel frattempo, lui se ne sarebbe stato a casa con la sua giovanissima moglie, l’ultima, Tessa (lei 18, lui 43 anni). Lei a lavorare su una gravidanza e a godersi la gioventù e lui a scrivere. Da solo. Lei lo fotografava: se li portava male, i quarantatré, precocemente incanutito.

Philip K. Dick con altri esseri umani

Un lavoro solitario per eccellenza, la scrittura, che quasi mai viene percepito come tale da chi ci sta intorno.
Forse è quello che lo spinse, per scrivere le Tre Stigmate di Palmer Eldritch, a rinchiudersi in un capanno. È un lavoro solitario, che va fatto da soli, e che nessun altro potrà mai capire.
Meglio metterci una pietra sopra. È così.
Quando, poi, ci si rapporta con la realtà, con la gente soprattutto, quel lavoro solitario diventa anche avvilente.
Sì, peggiora. Perché si tratta sì di vivere altrove, sempre concentrati su altro, a immaginare storie e persone, in un monologo costante col proprio cervello, o con la Voce. Parlarne agli altri, inoltre, in un certo modo, svilisce tutta la sovrastruttura, la rende tremendamente materiale. E incomprensibile. Perché gli altri non potranno mai capire l’entusiasmo per un passo in particolare, la febbrile ricerca dell’espressione esatta, la stanchezza che pervade la mente e secondariamente il corpo, dopo un’intera giornata passata a digitare.
Per cui, non sorprende che Dick non uscisse quasi mai di casa, non viaggiasse, non avesse colleghi o amici – non nel senso consueto del termine – e avesse serie difficoltà a parlare di sé. E perché, poi, avrebbe dovuto? Là fuori c’è l’essere umano…

Per uno che non viaggiava mai, che non viveva, che aveva difficoltà persino a prendere l’autobus – agorafobico, si dice, anche se il suo psicologo personale ritiene che la sua personalità fosse talmente ricca e complessa da non aver bisogno di patologie, si creava tutto da solo, pure il disagio – ha vissuto anche troppo, nella sua testa.
Poi ok, la storia della gemella morta subitaneamente e tutta una serie di coincidenze e stranezze che fanno pensare che, in qualche modo, Philip K. Dick potesse viaggiare stando fermo, e non tramite il melange, o l’lsd, o che percepisse il tempo in modo molto più simile a un dio che a un uomo. Quest’ultimo ha una percezione lineare, il tempo è composto da una sequenza infinita di attimi ordinati; per Dio, invece, esso esiste per intero, allo stesso momento.
Sta di fatto che Dick vide la sua morte, un uomo faccia a terra, privo di sensi, tra divano e scrivania. Lo sognò. Non riconobbe se stesso, in quella sagoma, ma l’immagine lo sconvolse più del dovuto, tant’è che avvertì il bisogno di scriverlo in una lettera, anni prima che la cosa effettivamente, accadesse, secondo le modalità che lui aveva predetto: venne rinvenuto prono, tra divano e scrivania, nella sua casa. Un brutto infarto.
Una morte solitaria, che gli negò quella sicurezza economica che, finalmente, dopo aver lottato tutta la vita con l’incertezza, gli sarebbe giunta da Blade Runner.

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