Scritto e diretto da Steven Knight, protagonista Tom Hardy, Locke è un’immensa sequenza-dialogo ambientata in un’automobile, della durata di un’ora e trenta minuti circa. Tanto occorre a Ivan Locke (Tom Hardy), per percorrere il tragitto che lo separa da un ospedale, dove una donna sta per partorire.
Film sperimentale, al quale qualunque attore vorrebbe partecipare almeno un volta nella carriera, vanta un intero cast, ma in effetti uno solo è l’attore inquadrato, all’interno dell’abitacolo della BMW; il resto confinato in una camera d’albergo, a contattare Hardy telefonicamente, onde recitare.
Ma non voglio soffermarmi sull’aspetto tecnico del film, quanto su due fattori, come sempre, essenziali.
La storia.
E il titolo.
La storia in questo caso è possente.
È una parabola di un’intera vita, gestita in un’ora e trenta.
Se a qualcuno pare strano che uno possa cambiare radicalmente la propria esistenza in novanta minuti, allora quel qualcuno non ha vissuto abbastanza.
E non solo essa guarda al presente di Ivan Locke, che è la risultante (o il punto d’arrivo) di tutte le scelte prese in quel momento, ma si concede anche il lusso di mettere in scena un residuo di rapporto conflittuale paterno, quindi passato, che persiste come ectoplasma con cui Locke, non pago di tutte le conversazioni telefoniche che sta avendo, ama confrontarsi verbalmente. Grazie a Dio, Knight ha la saggia idea di non impiegare un secondo attore in forma d’apparizione. Così che, i dialoghi tra Locke figlio e Locke padre sono in realtà dei monologhi a uso del primo, che tuttavia ci consentono di carpire, anche loro, l’essenza del messaggio. Le nostre vite sono un percorso finito e costante di scelte consequenziali. Alcune di queste sono semplicemente più influenti, in termini di conseguenze, di altre.
Il titolo dovrebbe essere sempre funzionale alla storia, arricchirla, simboleggiarla, in qualche modo.
Un buon titolo, unito a una buona copertina o poster, fa vendere il libro (o il film) da sé, non l’avete mai sentito dire?
Il film si intitola Locke.
Facile, direte voi, Knight ha intitolato il film col nome del protagonista.
Eppure il regista ha dichiarato che esso è omaggio al filosofo inglese John Locke.
E così mi sono un po’ arrovellato per cercare d’intuire quale fosse il collegamento, il messaggio, il codice segreto: qualcosa che associasse il filosofo John al personaggio Ivan Locke, che lavora nell’edilizia, si occupa della costruzione della parte più importante degli edifici: le fondamenta.
Fondamenta che potevano essere considerate avente valore profondamente simbolico, anche se tanto elementare.
John Locke, il filosofo, confutava la fiducia cieca che aveva Cartesio nel razionale, e nel suo metodo, considerato infallibile. Qualunque cosa era decifrabile, seguendo il metodo.
Esistevano al contrario, per Locke, problemi insolubili, di fronte ai quali non c’era metodo razionale atto a risolverli.
Semplicemente, la ragione nulla può contro di essi.
Ed ecco l’illuminazione: l’idealismo, la famiglia, il senso del dovere.
Nulla hanno a che vedere col razionale.
Fondamentalmente, Locke è una narrazione di eventi illogici, portata avanti per una questione di puntiglio, da un uomo abituato a controllare le cose (è capocantiere), e che persiste nello sfasciare sistematicamente (e nel giro di soli novanta minuti) la sua carriera, la sua vita privata e il suo futuro, mettendosi a servizio di un ideale.
Il figlio che sta per nascere è il suo, nato da un tradimento, e Locke, pur di dimostrare agli spettri del proprio passato di essere migliore, trascura, anzi mette da parte tutto ciò che era stata la sua esistenza fino a quel momento, rifiutandosi di portare avanti i suoi obblighi, per correre a veder nascere suo figlio: la creatura che lo distruggerà, anzi, l’ha già distrutto, prima ancora di venire al mondo.
Ecco, dicevo tra me e me, mentre guardavo, questo devastarsi la vita con coscienza è un’azione che solo la tua famiglia, o gli spettri di essa, ti possono rendere capace di fare.
Di fronte a certo tipo di affetti, o di legami, non esiste ragione, non esiste capacità di giudizio, che in quel momento si ottunde.
Quindi appare chiarissimo, quasi palese, il significato di tale nome, nel contesto completamente illogico del film.
Locke è stato girato in una manciata di notti, con Tom Hardy vittima di influenza, dettaglio ficcato di comodo nel film: è uno spaccato di vita, letteralmente, pur così pieno e completo. Le cineprese concedono solo due panoramiche esterne al veicolo, una che mostra il guidatore salire a bordo e lasciare la sua vita precedente, l’altra al termine del percorso, allargandosi e mostrando l’auto sempre più lontana, destinata verso un futuro incerto: meccanica e tecnica al servizio della storia.
Narrazione magistrale, che con un vaggito telefonico di un neonato, chiude la parabola della distruzione di un uomo.