Questa è una di quelle storie ritenute impossibili.
Perché contro la tradizione.
E la tradizione, lo sapete, per certe persone è assioma inviolabile.
Perché. abbiamo imparato, quella dei Samurai era una faccenda esclusivamente giapponese, una storia di katane, signori della guerra, e di un’isola che non si voleva arrendere al modernismo occidentale.
Ed è anche, soprattutto, l’assioma dei poveracci.
Perché alla storia piacciono le eccezioni, come a ogni buon romanziere.
In questa storia, infatti, ci sono tutti gli elementi sui quali è bello – e legittimo – sognare.
I Gesuiti. Un padre gesuita intraprendente.
Un ex schiavo africano.
Il Giappone feudale di Oda Nobunaga, un signore di larghe vedute che, come si confà a un uomo del suo rango, era costantemente impegnato in conflitti interni e minacciato a corte da cospiratori.
Ma andiamo con ordine:
Mozambico. XVI secolo. All’epoca dominio portoghese.
Alessandro Valignano era un prete gesuita che, nel 1579, per ragioni ignote, o forse per curare gli interessi della congregazione in Giappone, salpa per il Sol Levante, accompagnato dal suo attendente nero: Yasuke.
Sì, è ben strano che un africano alto circa 190 cm si chiamasse Yasuke. Ma lasciatemi proseguire.
I due approdano in Giappone ed è soprattutto il gigante africano a suscitare meraviglia. Per la sua stazza, per il fatto che si accompagnasse a uno strano individuo in tonaca, e perché era un nero.
Infatti l’illuminato Nobunaga, invitando Valignano a corte, per prima cosa ordinò ai suoi servi di prendere da parte il gigante e di lavarlo.
Per togliergli via l’inchiostro dalla pelle.
Ovviamente, il tentativo di togliere il colore fallì, e dopo le fonti scarseggiano, si sa soltanto che, in qualche modo, il colosso nero affascinò Nobunaga e che quest’ultimo ottenne che Yasuke passasse al suo servizio, in qualità di guardia del corpo personale.
La sua presenza, infatti, già da sola suscitava timore e incertezza nei nemici del signore feudale.
Ci siete arrivati: fu proprio Nobunaga a conferire al gigante africano il nome Yasuke. Il suo vero nome non si è mai scoperto.
Yasuke non si fermò a fare la bella statuina per spaventare i nemici di Nobunaga, ma imparò il giapponese, nel quale divenne fluente, e l’arte della spada.
Tant’è che fu investito Samurai nel 1581 e gli fu assegnata una dimora e una katana. Yasuke guerreggiava al fianco del suo signore e addirittura cenava insieme a lui. Un onore concesso a pochissimi, persino tra i samurai.
La storia prende una svolta inattesa appena l’anno successivo, il 1582, quando Nobunaga decise di lasciare il suo palazzo per recarsi in visita al tempio di Kyoto, lasciando campo libero a uno dei suoi più acerrimi avversari, il generale Akechi Mitsuhide, che ne approfittò per mettere in piedi una ribellione.
Disonorato, e di sicuro sconfitto, Nobunaga salvò il suo onore commettendo seppuku.
Yasuke passò al servizio del figlio di Nobunaga, Oda Nobutada, e al suo fianco combatté contro i ribelli.
Ma la fortuna in guerra arrise ai ribelli, e così la fortezza di Nobutada fu espugnata, e anche Nobutada commise, come il padre, seppuku.
Yasuke però non seguì la sorte dei suoi signori. Fu fatto prigioniero e qui la storia diventa nebulosa. Non fu giustiziato, né accettò il seppuku.
Alcuni dicono che fu ancora una volta la sua pelle a salvargli la vita. Qualcosa legata alla superstizione, da parte di Nobutada, di uccidere un guerriero sì valoroso, ma anche strano, strano abbastanza da sembrare essere stato inviato da qualche dio. E, magari, sarà sembrato poco saggio “mettersi contro chi aveva amici così potenti”.
Oppure la pietà di Mitsuhide.
Oppure ancora, a salvargli la vita furono i Gesuiti.
La fama di Yasuke correva per tutta l’isola, ed era ben noto che, tre anni prima, era sbarcato coi preti cristiani.
Quindi a loro fu rispedito, forse perché, in definitiva, Matsuhide non aveva alcun interesse a scontentare quella potente organizzazione, in nome della buona diplomazia.
Poco o nulla si conosce della vita di Yasuke dopo che ebbe posato la katana. Forse rimase al servizio dei Gesuiti fino alla morte, o forse s’impegnò in altre avventure, delle quali, però, s’è perso ogni ricordo o testimonianza.