“Spiando” il blog di Sciamano, ho scorto la foto della copertina di questo bel romanzo letto anni fa e “recensito” in uno dei primissimi post del nostro forum deserto e mi è venuta voglia di riproporvelo, visto che questa recensione è una delle poche cose decenti che ho scritto.
Non lasciatevi fuorviare dal titolo, Il Canto di Kali (Song of Kali, 1985) di Dan Simmons non è un romanzo d’avventura con echi alla Indiana Jones e il Tempio Maledetto, né un panegirico sulla ricerca dell’illuminazione tipo La Profezia di Celestino o i romanzi di Paulo Coelho, esso è una rappresentazione dell’Orrore, incarnato in una megalopoli, Calcutta, che già da sé, vista come un unico corpo gigantesco, emana influenze nefaste, effluvi malsani di disperazione.
A Calcutta, ai nostri giorni, giunge lo scrittore Luczak, accompagnato dalla moglie Amrita, di origini indiane e dalla figlioletta di alcuni mesi Victoria, costui deve rintracciare un poeta indiano, Das, creduto morto, ma che è apparentemente ricomparso diffondendo una nuova opera letteraria dai toni cupi e macabri, così diversa da quelle atmosfere pastorali dei suoi precedenti scritti, per attribuire una sicura paternità a questo nuovo poema.
Così inizia il viaggio in questa torbida e infernale città, colma di misteri e osceni segreti che il colonialismo inglese, anziché distruggere, ha contribuito a celare sempre di più e, così facendo, ne ha favorito il radicarsi nel profondo dell’animo di quei miserabili e derelitti che la abitano.
Assistito nelle sue ricerche da un giovane indiano, Khrishna, a sua volta tormentato dalla passata appartenenza ad una setta religiosa dedita a riti raccapriccianti, il nostro Luczak scoprirà ben presto che il poeta che egli cerca sembra essere morto davvero, ma che, altrettanto inspiegabilmente, sembra essere “tornato”…
L’atmosfera sulfurea e umida (sembra quasi, mentre lo si legge, di sentirsi addosso il clima appiccicoso dei Monsoni), la frustrazione e l’impotenza dei personaggi di fronte ad un male millenario che essi stentano a comprendere, i veri e propri abomini in cui ci si imbatte durante la lettura fino allo sconvolgente (e non è solo un modo di dire) finale e la eccezionale (e fantasiosa) ricostruzione di una lugubre e iniqua Calcutta spingono gli appassionati del genere ad una volontaria “fuga dall’horror patinato”, come lo
definisco io, per addentrarsi, insieme a Luczak, nell’inferno del Canto di Kali.
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@b&n: quando lo lessi anni fa ne rimasi conquistato, con la sua fantascienza che mescolava imperi su mondi e galassie alla Asimov, temi cyberpunk e certi picchi horror niente male (crucimorfi, l’avatar metallico,…). Dei quattro volumi i primi due sono a mio avviso i migliori.
Ora scusate ma c’è il nuovo video di Natalie Imbruglia e non connetto più… 😉
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I canti di Hyperion sono STRA-consigliati! Io ho riletto tutti i volumi tre volte… sono qualcosa di… superiore.
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Apprezzo forse di più il ciclo fantascientifico di Hyperion, del buon Simmons, però ricordo Kalì come un libro capace di lasciarmi addosso, ogni volta che lo poggiavo, una sensazione di sporco (e non me l’ero mica fatta addosso eh!).
Le strade della città, questi culti sotterranei e tentacolari, la stessa vicenda del protagonista, coinvolgevano e disgustavano il lettore. Cioè me, ma oggi sono in terza persona… 😉
Va be’ è tardi, ma avete capito… -
Non ci credo.
Volevo proprio rileggerlo a breve. Ce l’ho in libreria da anni, ed è passato tanto tempo da quando me lo gustai la prima volta.
Quasi non lo ricordo.
A questo punto non mi posso esimere…