Sta accadendo. Lo sento che monta, il critico dentro di me, sempre alla ricerca del brutto e del difetto, piuttosto che del suo opposto, in un film bello come questo.
Perché sì, ogni tanto fa bene dirlo, per spazzare via quel critico infame: Drive è bellissimo.
Fa sentire meglio, credetemi. E, se non volete diventare critici, scrivetelo o ditelo anche voi.
In questo periodo vivo di rendita, non ho il tempo neppure per documentarmi, per tenermi aggiornato, per cui, prima di iniziare sul serio, devo un ringraziamento speciale ai miei amici, vicini di casa virtuali: Lucia, Alex, Roberto e Fra. Grazie per le vostre segnalazioni. E per tutto il resto, voi lo sapete.
E si inizia con Los Angeles. La città che, nel mio immaginario, è il confine dell’umanità perduta, qualcosa di filosofico, vasto fino all’orizzonte, una marea umana in cui immergersi rischiando di annegare. Le panoramiche della Città degli Angeli di notte, la notte che non è mai davvero scura, a causa delle luci, annichiliscono. Panoramiche e non solo, superstrade, vicoli giallo ambra, viadotti, inseguimenti su auto con trecento cavalli nel motore. Per un film che si intitola Drive, in fondo, si guida davvero poco.
Nicolas Winding Refn alla regia, Ryan Gosling alla guida, con qualche faccia illustre nel mezzo, come Ron Perlman, finalmente in un ruolo degno.
Una storia, reale, di sostituzioni. Al posto di Refn e Gosling, Neil Marshall e Hugh Jackman. Poteva accadere davvero. Sentite anche voi il brivido del commerciale in agguato? E invece, Refn, che pure mi aveva disintegrato (in positivo) con Valhalla Rising, rincoglionito (sempre in positivo) con Bronson, che è abituato a scriverseli da sé, i suoi soggetti, qui adatta un romanzo. E lo fa a modo suo, dato che, per sua stessa ammissione, non ha la patente e ha fallito otto volte l’esame di guida. Certe cose non si riesce proprio a farle.
Ma, ehi, lui realizza film coi controcazzi. Voi che guidate benissimo, invece?
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E dopo il primo inseguimento, fatto di saggezza e freddezza, per le arterie losangeline, si è presi dalla sensazione di deja vu. Ryan Gosling, il nome non vi dice nulla, eppure lo conoscete tutti. Lui era il giovane Hercules, sulla via di Xena e compagnia tapertiana. Sopresa, sorpresa! Il ragazzo è cresciuto e ora si concede ruoli cazzuti, di quelli che fanno storia.
E questa storia riescheggia di western. È come sempre è stato, storie violente, rapide, brutali, quelle del western, con personaggi che violano la legalità come sistema di vita, facendolo con saggezza e cattiveria, osando fin dove possono, accettando i rischi. Il personaggio di Gosling è accreditato come Driver, in italiano lo chiamano “Ragazzo”; non ha un passato, né un futuro apparente e, cosa più importante, non ha un nome.
Di contro ha un giubbetto con uno scorpione dorato sulla schiena, ce l’ha sempre addosso, e uno schema di valori distorto o, per meglio dire, pratico. In fondo, si tratta, in una vita fatta di illegalità, di non farsi coinvolgere dal mestiere che si è deciso di fare. Lui è un autista e presta i suoi servigi e la sua bravura ai rapinatori, per cinque minuti d’orologio. Cinque minuti in cui li porterà dal luogo della rapina in un posto sicuro e sarà pagato per questo. Le conseguenze delle sue azioni sono ragionamenti buoni per i filosofi, non per uno che guida e va veloce.
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Il Ragazzo ha, quindi, le connotazioni del giustiziere mascherato. Vestito di un simbolo, lo scorpione, e privo di altre caratteristiche che, agli occhi dei suoi nemici, possano renderlo umano, e vulnerabile.
L’aspetto più trascurato di Drive è, rispetto alle scene truci e realistiche che li vedono partecipi, proprio la controparte malvagia (ma non troppo), i boss Bernie Rose (Albert Brooks) e Nino (Ron Perlman) coi quali il Ragazzo deve fare i conti.
Il movente, o la causa dell’agire del paladino è una donna, Irene (Carey Mulligan) e il suo bambino, Benicio. Sono vicini di casa da anni, ma non si sono mai visti prima. E, dopo, dal momento che è successo, è difficile smettere, anche se il marito sta per tornare dal carcere.
Eroe non a caso, il nostro Autista, spinto da un sentimento di possesso e fedeltà puro, che lo porta ad aiutare Standard, compagno della donna, purché lei resti illesa da qualunque pericolo, dai guai in cui il marito s’è cacciato: debiti da saldare.
Il Ragazzo è in gamba, il suo sorriso tirato, ma può spaccarti una mano a martellate per farti parlare. Può sembrare strano o stupido vederlo muoversi per strada col vestito macchiato di sangue, ma non lo è, dato che lavora nel cinema, e, finché è a bordo, su un’auto anonima, il rischio che qualcuno lo noti è davvero minimo. E poi, fa tutto parte della trasfigurazione. Del simbolo.
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A Los Angeles il cinema è un’industria, ma fare lo stuntman e cappottarsi per cinquecento dollari in più nella paga è un lavoro di merda. Ma permette non già di fare metacinema, ma teoria della maschera, supportata dalle inquadrature, che insistono sullo scorpione sul retro della giacca del Ragazzo. Alla fine, in prossimità di uno scontro esiziale, lui indossa la vera maschera di scena, di silicone, grazie alla quale egli, mentre fa le cose da stuntman, assomiglia alla star. Ora l’eroe è completo, ha la sua auto truccata che egli sa pilotare meglio di chiunque altro (il suo superpotere), ha il suo vestito, che non toglie mai, neppure quando è lordo di sangue, ha la maschera per preservare la propria identità segreta, ha un nemico, e ha l’amore, puro, sincero, forse ricambiato o forse no, perché le efferatezze alle quali egli cede, fanno orrore.
Finale aperto, epico, bagnato col sangue. Ne scorre poco, in verità, ma lascia tracce indelebili. Combattimenti brevi e letali, senza sprechi di energia, senza parole stupide. In breve, come piacciono a me.
Messinscena sontuosa, quella di Refn, che ci mostra la città e gli sguardi e i volti di quei pochi, selezionati protagonisti scelti per narrarla. Alla fine, commedia di maschere per tutti, dove la malvagità si scontra con il cavaliere senza macchia, perché persuaso della propria morale (deviata che sia o inesistente non importa, perché funzioni e diventi scudo basta crederci), per difendere l’innocenza della donna e del bambino, tramutandosi in vendetta e furia.
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La recensione di Lucia