Da questo film, Quentin Tarantino ha tratto ispirazione per il suo Django Unchained. Ho pensato che sarebbe stato interessante esaminarlo prima di trattare di quello nuovo.
Django è un film che è icona, probabilmente lo era fin dai tempi delle prime proiezioni, fin dai titoli di testa, rossi, stesso colore del sangue.
Compare il titolo, il nome del regista, e quest’uomo vestito di stracci, sotto i quali si vedono appena le brache blu con le strisce gialle, un nordista della Guerra di Secessione americana. Solo che siamo in Italia, più precisamente tra Italia, gli studi della Elios, e la Spagna, i dintorni di Madrid.
Il regista si chiama Sergio Corbucci, e questo è il western spietato, violento e pulp, come piaceva rileggerlo agli italiani, i mangiaspaghetti.
Ora penso a cosa poteva significare, nel 1966, vedere un ex-soldato trascinare una bara in un terreno fangoso come pochi, e ammazzare banditi dalle bende rosse, che non fanno mistero d’essere razzisti. Praticamente appena fa la sua comparsa, Django, e con lui Franco Nero, diviene una silhouette, un simbolo, guerriero, cappellaccio a falda larga, e bara. Un fumetto, qualcosa che, fosse stata creata in questi anni, avrebbe generato un meme su internet dalla forza inusitata, e merchandising e milioni di dollari.
Ma era solo il 1966, e pur piacendo, lo spaghetti-western era un genere scomodo. Django fu bandito per la violenza impressa su pellicola fino agli anni Novanta, in Gran Bretagna. Tanto per raccontarne una.
Sergio Corbucci faceva film alla Tarantino, prima che fare film alla Tarantino divenisse una figata, e torme di entusiasti si precipitassero a baciargli i piedi. Ed era italiano. E gli italiani erano capaci di fare certo cinema.
Poi, chissà, come ha detto Tarantino stesso, gli italiani sono caduti in depressione. E con la depressione, è arrivato il cinema del cazzo odierno. Che tutti odiano, ma che si ostinano a fare, come fossimo in un girone dantesco.
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Ruggero Deodato aiuto regista, Sergio e Bruno Corbucci alla regia e alla sceneggiatura, e c’è anche spazio per Enzo Barboni.
Si cercava il pistolero dagli occhi di ghiaccio, e si trovava Clint Eastwood, Terence Hill, sì, proprio lui, e Franco Nero, che ha gli occhi talmente azzurri che sembrano finti, quando, verso la fine, è coperto di fango dalla testa ai piedi.
Ciò che colpisce, al di là della spettacolarizzazione della violenza, caratteristica propria del pulp, è la scelta cromatica. Come detto, c’è contrasto tra il marrone, del fango, del villaggio, del legno delle case e del saloon, della sporcizia sui vestiti, sovrasta ogni cosa, pare voglia gridare, più che suggerire, che quel villaggio dove l’azione si svolge sia davvero un posto di merda, e il rosso. Quest’ultimo, titoli di testa a parte, è nelle sciarpe e nei cappucci dei Sudisti, una sorta di Ku Klux Klan dedito allo sterminio dei messicani, nei vestiti delle mignotte da saloon, che così conciate vogliono compiacere e ingraziarsi il Maggiore Jackson, capo dei razzisti, e, come detto, nel sangue. Il risultato finale sono delle macchie rosse che squarciano lo schermo, impossibile non vederle. Mantengono desta l’attenzione, contribuiscono, dal lato prettamente estetico, a rendere spettacolare la messinscena.
Gli esterni spagnoli e i set interni costruiti a Roma. A Roma, signori e signore. con le maestranze locali.
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La regia di Corbucci è professionale, supportata dalla fotografia. Ancora una volta, a ben guardare, risultano evidenti i debiti che molti cineasti moderni, Tarantino in primis, devono a questo cinema. Panoramiche di desolazione, carrellate sul paese, zoom improvvisi che stringono i primi piani degli attori nei momenti di pathos, stacchi e dinamismo. Una regia classica, anche, quando si tratta di legare le scene tra interni e esterni, ma che stava evolvendo nel senso moderno. Corbucci ne aveva da insegnare.
E sinceramente, continuo a non comprendere il sortilegio che lo ha voluto relegato, via via, a prodotti sempre più standardizzati, secondo un modo di fare cinema che di decennio in decennio s’è appiattito sempre di più, nel vano tentativo di imitare ciò che noi stessi avevamo esportato, e di esportare un modello di narrazione maniaco-depressiva i cui frutti oggi si raccolgono nella storia del calciatore padre fallito negli states.
Ma non divaghiamo. Django è regia, gusto per la narrazione prodigioso, è sceneggiatura. L’intero comparto eccelle, si nota dalle sequenze mai sbiadite, mai gratuite, montate secondo logica e passione, dirette. Azione, è vero, ma anche e soprattutto, costruzione dei personaggi, partendo dal protagonista, reso già eterno da quei primi dieci secondi in cui si trascina dietro la bara, reso fortissimo dall’utilizzo della mitragliatrice multicanna, con la quale falcia decine di nemici coi bavagli rossi, quel massacro tanto caro, come al solito, a Tarantino, reso vulnerabile, ma mai patetico, dall’amore per una donna morta, che una viva e presente tenta di sostituire invano, in un microcosmo vessato dall’interesse, dalla corsa all’oro per finanziare guerre, dagli uomini e dall’odio razziale.
Un’abbondanza di temi eccezionale, per soli 87 minuti di durata.
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Django è opera matura, nonostante tutto. Rappresentativa di un genere, ma del cinema stesso. E con questa recensione io posso solo omaggiarlo. A distanza di tanti anni, guardandomi intorno, appare tanto più alieno quanto ormai consueto è il cinema idiota che mi circonda.
A leggere i credits, a rendersi conto che tutti i pezzi grossi hanno cognomi simili al mio, a guardare Franco Nero, che oggi viene giustamente omaggiato nel nuovo Django e che qui, a parte qualche comparsata ridicola nei contenitori domenicali, non se lo caga nessuno, eccetto quelli come noi, che rigettano il qualunquismo, ancora ad accorgersi della capacità e della voglia di narrare l’universo fantastico che possedevamo e che abbiamo svenduto, ribolle il sangue.
Django non è solo violenza, è epopea classica, è l’antieroe per eccellenza, solitario, inflessibile, umano quando si porta a letto le prostitute e ruba l’oro, vendicativo, inarrendevole, persino quando gli vengono fratturate le mani.
L’unica colpa di questo e di tanti altri film è che sono venuti in anticipo. Sì, altrove è un merito, ma qui, lo sapete dove siamo, no? Nel mitologico stivale, che nel frattempo ha calpestato merda, scambiandola per fango. E non s’è accorto della puzza.
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