Antologia del Cinema

La Casa dalle Finestre che ridono (1976)

Stanotte sono rientrato alle due passate e ho acceso la tv per addormentarmi. Notte silente, squarciata dalle grida di un ubriaco. E in tv davano La Casa dalle Finestre che ridono di Pupi Avati. Si era già a buon punto. Il restauro dell’affresco del Legnani nella chiesa era completato, prima che venisse distrutto ancora, ed aveva portato alla luce i volti delle due carnefici, sclerotiche e folli, vecchie e laide, come avrebbe detto Cecco Angiolieri: due arpie venute da qualche bolgia infernale.
Fascino magnetico per questo film italiano. Irrinunciabile. È come il cinema italiano avrebbe sempre dovuto essere. E dovrebbe essere ancora: uno sguardo sulla provincia malata, sonnacchiosa che, tra le pieghe di paesaggi bucolici rimasti invariati allo scorrere dei millenni, cela la vita vera fatta di dolori, segreti turpi e agonie. Antonio Avati, Pupi Avati (regista), Gianni Cavina e Maurizio Costanzo. Eccoli qua. Che poi uno pensa alle distorsioni moderne, al fatto che il gusto di raccontare storie che atteriscono è andato via, smarrito nel moralismo sciocco degli ultimi decenni. Ma nel 1976, anno della mia nascita, ci si provava ancora a spaventare.
Non ricordo chi lo scrisse e dove lo lessi: spaventaci ancora, caro Avati. Spaventaci ancora. Dovrebbe diventare una sorta di mantra.
E infatti, Avati ci riesce, a spaventarci, inquadrando una catapecchia in attesa di essere abbattuta, in un luogo solcato da fiumiciattoli da cui sono fuggite persino le anguille, e disegnando sulle finestre, assieme ad Antonio Avati e ad Amadei, dei larghi sorrisi, retaggio del folle pittore Buono Legnani, spirito del film.

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[qualche spoiler qua e là]

Questa non vuole essere una recensione come tutte le altre, ma una suggestione. Troppi e troppo dettagliati gli articoli rinvenuti in rete (che troverete linkati alla fine), colmi di curiosità e fotografie bellssime, per tentare di riproporre La Casa dalle Finestre che ridono in un’analisi meramente tecnica. Ci si prova lo stesso, ammirando il grandangolo che mostra la soffitta degli orrori, si pensa con stupore al colpo di scena finale, alle risate stridule, a quelle frasi in portoghese smozzicate e ghignanti. Alle vecchie coi denti finti, ingrigiti dal tempo, allo sguardo del prete.
Affetto e magnetismo immediati, pur se l’attore protagonista e tanti altri volti familiari, magari stanno anche un po’ antipatici. Così provinciali, così italiani. Parlano con l’accento, ma sono così perfetti da sembrare usciti da un film di David Lynch: uno per tutti, il nano sulla berlina rossa. Sotto la fotografia di Storaro e la Panavision hollywoodiana, staremmo parlando di una pellicola leggendaria.
Non che non lo sia, ma a parità di mezzi, tale è la qualità della storia, che avrebbe meritato ben altri capitali. Un discorso di ma e di se, al quale si può contrapporre l’indiscusso fascino artigianale. Quello di andare in giro a scegliersi le location nella Bassa Padana, fabbricarsele all’occorrenza, e montarci su un intreccio che è un esorcismo di un incubo infantile: la storia del prete-donna.

***

Episodio dell’infanzia del regista, un giorno venne aperta la tomba di un prete, per ragioni non chiare, e al suo interno venne rinvenuto il corpo mummificato di una donna. E il prete-donna divenne lo spunto per la zia di Avati di creare l’uomo nero, per far star buono il regista ancora bambino. Il prete-donna sarebbe venuto a prenderlo, se non avesse fatto il bravo.
Infanzia spettacolare, popolata dai mostri delle fiabe, quelli che devono spaventare per instillare il concetto di male e di bene. La paura, non smetterò mai di dirlo, è un sentimento sano, se ben incanalato. Specie se poi, decenni dopo, ti permette di inscenare un film come questo.
Stefano (Lino Capolicchio) è un restauratore o, come spesso accade, un pittore fallito che s’è messo a restaurare (per campare) i lavori di quelli più bravi di lui. Mestiere ingrato. C’è un affresco, in una chiesa, che necessita di un restauro totale. Esso mostra il martirio di San Sebastiano; l’autore è un pittore locale, Buono Legnani, detto il “pittore d’agonie”, morto da tanti anni, suicida. S’è dato fuoco poco dopo aver completato il dipinto. Un pazzo intorno al quale, note a tutti, circolano storie oscene, curiosità, di quelle che fanno schifo in vita, ti fanno isolare dalla gente, ma che fanno grande la memoria di “artista maledetto”.

***

C’è il paese, abitato da gente nebbiosa e umida come il clima che si respira, di cospirazione, di sguardi taglienti, di verità sussurrate che, viste in prima persona, sfociano nella follia come forma di autodifesa. Il restauro non deve essere completato, perché è chiaro, l’affresco cela un segreto torbido coperto alla morte del suo autore.
La voce di Legnani sul nastro, roca, veloce, le parole che diventano uno scaracchio sonoro nel quale a mala pena si riesce a dinstinguere la parola fondamentale: morte.
Tutti i personaggi di questo film sono così italiani, brava gente, che i panni sporchi li lava in casa, che si dà al pettegolezzo sfrenato, ostili ai parvenu che arrivano e sconvolgono il precario equilibrio sotto il quale, come sotto un velo di terra, sono stati nascosti scheletri presunti, segreti inconfessabili e vere ossa, fosse comuni dell’attività di un pittore pazzo.
Score che più adatto non si può, accompagna lo svelarsi della storia, a poco a poco, rivelazione in rivelazione. L’innocenza rappresentata nello sguardo e nell’ingenuità della bellissima Francesca Marciano, di contro alla curiosità del restauratore, e al viaggio finale nella follia, talmente bello e inatteso che si è ancora lì ad ammirarlo: cotone grezzo, cuffie a nascondere i capelli grigi, urla e voci stridule, da streghe, coltellacci che fanno zampillare il sangue. E un San Sebastiano nuovo, urlante. Morente.
Ancora un attimo di distensione, che c’illude che sia tutto finito, e poi le risate che gelano il sangue. Continua a spaventarci, caro Avati. Continua pure.

Altre recensioni QUI

Link utili:

LOCATION DA LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO
L’INQUILINO DELLA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO
Foto di scena inedite dalla “Casa dalle Finestre che Ridono”
ULTIMI LUOGHI DALLA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO

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    • 13 anni ago

    […] Avati. Del trio, in verità: lui, Antonio Avati e Maurizio Costanzo. Zeder è la controparte de La Casa dalle Finestre che ridono. È l’horror italiano che rende Rimini, una Rimini vista di taglio, senza inquadrare il mare, […]

    • 13 anni ago

    Perché, Impiegati no?

    • 13 anni ago

    Uno degli ultimi film acquistati su VHS in allegato con un quotidiano…grandi brividi! Avati a me piace anche quando racconta le pochezze della classe borghese, soprattutto quando sta in forma. A chi non piace “Regalo di Natale”?

      • 13 anni ago

      Regalo di Natale è magnifico! 😀

    • 13 anni ago

    […] Visita il sito bookandnegative oppure iscriviti al feed Leggi l'articolo completo su AlterVista […]

    • 13 anni ago

    Sono entrambi del 1983.
    Ma a quanto pare Zeder anticipò l’uscita del romanzo di King.

    😉

    • 13 anni ago

    Zeder, ecco quello che mi ricordavo.
    Mi piacque di più.
    Ma non era platealmente ispirato a Pet sematary?
    Chi era venuto prima?

    • 13 anni ago

    Hell, pure a me piace, se non s’è capito 😛

      • 13 anni ago

      S’è capito, s’è capito. 😀

      Alex: e tra poco tocca a Zeder. 😉

    • 13 anni ago

    Uno dei miei film preferiti in assoluto.

    • 13 anni ago

    Argh! Due post arretrati di due film che ho visto e che mi piacciono! Vediamo se riusciamo a “litigare” 😛
    Vado a leggere.

    …..

    e invece no, invece è proprio un bel pezzo e, come al solito, mi hai fatto venire voglia di rivedere il film. Ed in questo caso lo so letteralmente a memoria, uno dei miei primi film di genere, ricordo che mi sconvolse. oggi viene fuori un po’ l’ingenuità (ed i miei occhi sono pure meno smaliziati) ma è un film (indovina?) imprescindibile.

      • 13 anni ago

      Be’ guarda, non ci crederai, ma è anche bello “litigare” con te. Preferisco non farlo, però mi piace perché è vero. Non so se mi capisci. 😀

      Grazie mille.

    • 13 anni ago

    Uno dei film che più di tutti mi hanno smerdato col finale. Lasciandomi con una faccia tipo “cervo bloccato dai fanali dell’auto”. Tanto di cappello ad Avati per avur saputo mostrare il marcio sotto il provincialismo. E mostrato che il sangue scorre anche qua da noi.

    • 13 anni ago

    Adoro questa pellicola, uno dei gialli all’italiana che preferisco. 🙂

    Bell’articolo, bisogna mantenere sempre vivi i ricordi e le suggestioni di film del genere, che anche grazie al taglio artigianale rimangono impresse nella memoria collettiva.

    Ciao,
    Gianluca

      • 13 anni ago

      Ogni volta che ripassano in tv è una festa. 😀

    • 13 anni ago

    Capolavoro assoluto, e prova spettacolare di Avati, che spero riprenda a girare di nuovo horror al più presto. Credo sia, ormai, l’unico regista italiano a riuscire sempre e comunque a restare ben sopra la sufficienza (quando si cimenta nell’horror).

      • 13 anni ago

      A me è piaciuto anche nelle due prove medievali, di solito maltrattate da tutti.

    • 13 anni ago

    Il ché significa che c’è qualcuno (o più di qualcuno) che è davvero davvero davvero convinto che una minestra riscaldata in salsa 3D su Dracula possa funzionare.
    Lasciamo stare che c’è Argento. Lasciamolo stare.

    Tragico e surreale.

    • 13 anni ago

    E’ stato il ministero della cultura, li mortacci loro!

    • 13 anni ago

    No ma… Dracula 3D? Seriously? 😆
    Ma chi è stato? Voglio sapere i nomi! Chi è stato?!?!

    ahahahahahah 😀

    • 13 anni ago

    neanche troppo: hanno dato non so quanti milioni di euro ad Argento per girare Dracula 3d 😀 😀
    E glieli ha dati lo stato, pensa…immagina il mio sgomento.
    Non era male neanche un horror recente di Avati, il Nascondiglio, che andai a vedere al cinema.
    Tante volte mi sono chiesta cosa sarebbe accaduto se Fulci avesse avuto un budget decente per girare L’ aldilà…e sì, sarebbe stato un sogno impossibile all’ epoca, figuriamoci oggi che di horror (e di cinema di genere) non se ne producono affatto.

    • 13 anni ago

    92 minuti di applausi 😀

    Io credo che sia proprio il “provincialismo” di certe pellicole a renderle uniche e speciali. Non serve imitare gli americani sul loro stesso terreno. Invece ti inventi una bella storia, radicata nel profondo nella realtà del tuo paese e la rendi universale.
    Peccato che Avati non si sia più ripetuto a questi livelli.

      • 13 anni ago

      😀
      L’Arcano Incantatore è carino, ad esempio. Peccato gli effetti speciali allucinanti…
      Sì, ma non intendevo che bisogna imitare gli americani che, se è vero, hanno imitato Avati (mi riferisco a Craven), quanto a un auspicato dispiego di mezzi più grandi per potenziare film già validi. Sai che figata? Ma è una fantasia da Paese dei Balocchi…

    • 13 anni ago

    Bellissima pellicola, uno dei migliori film del panorama nostrano che abbia mai visto. Ormai sono passati quasi dieci anni dalla prima volta che ho avuto il piacere, ma ogni tanto, quando lo sconforto del cinema moderno mi assale, infilo il dvd nel lettore e me lo gusto ancora senza problemi.
    Di film così ne esistono pochi, forse meno di quello che penso, e certi capolavori andrebbero salvaguardati.

    Narratore