Ieri guardavo Vertigo, alias La Donna che visse due volte, di Alfred Hitchcock, e come sempre, la mia attenzione s’è fissata su piccoli dettagli, e su riflessioni più ampie.
Il film, lo sappiamo, fu accolto tiepidamente, nel 1958, sia dal pubblico che dalla critica.
E questo è un fatto. Come diceva Nietzsche, c’è chi viene al mondo postumo. Vale anche per le opere cinematografiche, o letterarie. Solo che Hitchcock, al tempo, la pensava diversamente, e diede la colpa in primis a James Stewart, troppo vecchio per solleticare l’interesse del gentil sesso, e far convergere gli spettatori /spettatrici al cinema, e poi a Kim Novak, sbagliata per la parte, sempre a dire di Alfred. Che poi uno se li immagina, questi registi, così lontani da siffatta logica terrena, che appartiene ormai anche a noi blogger… e invece, si scopre che ci restava male pure lui, all’indifferenza del pubblico. E reagiva da par suo…
Ma non divaghiamo.
In ogni caso, Hitchcock non lavorò mai più con Stewart. Dire che se l’era legata al dito è poco.
Sessant’anni dopo, anche grazie a James Stewart e Kim Novak, Vertigo è però considerato un capolavoro assoluto.
Quindi prima uno schifo di film.
Poi un capolavoro.
È sempre la stessa storia.
E guardacaso tutto l’impianto narrativo è centrato su un simbolo unico e evocativo: la spirale.
Che è, in primo luogo, rappresentazione del difetto del protagonista: quella acrofobia, o paura dell’altezza; in secondo luogo, essa è rappresentazione grafica delle vertigini.
In terzo, è l’eterno ritorno.
E questa teoria dell’eterno ritorno dell’uguale, che vuole gli eventi destinati a ripetersi all’infinito, del tutto intatti allo scorrere delle epoche, è supportata innanzitutto, dall’illusione ammaliatrice che accompagna la protagonista: quella donna che visse due volte. Madeleine.
Che, per sé, interpreta la parte di una reincarnata. Uno spirito inquieto temporaneamente posseduto da una donna morta in tragiche circostanze un secolo prima.
Evento che lei è condannata a ripetere, reinterpretando, per la seconda volta, questa per conto di James Stewart, quella stessa donna che la prima ha simulato fino al suicidio, stavolta soccombendo, al rimorso prima; il personaggio di Kim Novak è, infatti, complice di un omicidio. E poi alla paura, quando Hitchcock, proprio nei minuti finali, si permette di inserire una sequenza magistrale che è puro horror sovrannaturale: l’ombra della suora, nel campanile, che terrorizza Madeleine a tal punto da spingerla, ancora una volta, a riprodurre un destino, cadere dalla torre, esattamente come è successo alla donna di cui interpretava la parte.
L’eterno ritorno dell’amore, che è progresso e dannazione, l’eterno ritorno della maledizione che affligge il personaggio di James Stewart, Scottie, che alle vertigini deve imputare due grandi lutti che hanno afflitto la sua vita e determinato il suo destino.
Per non parlare poi delle ripetute apparizioni di quella donna appena perduta, che Scottie continua a rivedere in ogni donna incontrata in luoghi familiari. Sì, perché i luoghi, come tutto il resto, ritornano, sempre gli stessi, sempre uguali, per rievocare, per fornire una copia, di una copia, di una copia di una vita incrociata con un’altra, però fasulla.
Magistrale è la sequenza ambientata al parco naturale, quando Scottie e Madeleine (Kim Novak) passeggiano tra le sequoie, alberi enormi che coprono archi di esistenza talmente immensi, al cui cospetto i destini umani sono misera cosa.
Forse gli unici capaci di svelare l’inganno in atto, presumibilmente, se avessero una coscienza comprensibile; difatti sono le uniche creature che Madeleine teme, perché saranno ancora lì quando lei sarà morta. Entrambe le volte.
Se quindi le piante, creature aliene, s’esprimono ad anelli, l’essere umano è condannato alla spirale, a ripercorrere, sotto forme diverse, sempre gli stessi eventi, che siano coercibili o non. Spirale presente persino nella crocchia dei capelli di Madeleine, tratto distintivo, forse indizio, chissà, messo di proposito per trasformare tutto il film in puro simbolismo.
Eterno ritorno, d’altronde, incarnato anche nell’utilizzo plurimo dei riflessi, quella simbologia dello specchio, dell’altro malvagio, che ripetutamente appare lungo tutto l’arco del film:
– Scottie vede per la prima volta Madeleine riflessa nello specchio, solo dopo in carne e ossa.
– Madeleine riferisce ai suoi sogni come un corridoio di specchi.
– Madeleine stessa che viene riflessa più volte lungo tutto il film.
– Madeleine che fissa il “suo” ritratto, ovvero della propria antenata “Carlotta”, con la quale condivide un prezioso pendente, e che essa incarna.
Non solo, persino Midge, l’amica/assistente di Scottie, è ripetuta, più volte:
– siede accanto al suo ritratto, che la vede acconciata come Carlotta.
– viene riflessa dal vetro della finestra subito dopo che ha mostrato il suo ritratto a Scottie.
Sequenze oniriche richiamano più volte la dama del dipinto accanto a James Stewart e inoltre, ogni sequenza cardine che segna uno sviluppo decisivo nella trama riguardante Madeleine è contrassegnata da un’alterazione delle luci in scena, ben visibile e che può apparire come un difetto della pellicola, sottoposta a restauro. Invece non è un difetto, ma un gioco di luci intenzionale.
Cos’è lo specchio, se non un ritorno? Sul simbolismo del doppio, vi rimando a questi articoli: QUI e QUI.
Noi invece continuiamo a godere di Vertigo, vero e proprio schema a incastro, linguaggio simbolico lasciatoci in preziosa eredità.