Ole Marius Joergensen ha una fascinazione per l’immagine. Da sempre.
Oltre che l’ossessione di essere un cantastorie.
È importante per capire.
Raccontare storie può essere un impulso irrefrenabile.
Tale da mettere in discussione la scelta originale, di diventare un regista, perché lui stesso, dice, era così impaziente di poter godere del risultato delle sue idee, da non riuscire a aspettare mesi per vederle compiute.
Così, è diventato un fotografo.
Un fotografo digitale.
Perché Ole Marius Joergensen, sebbene stregato da due decenni ben precisi della cultura americana, gli anni Cinquanta e i Sessanta, che tanto hanno influito sul suo immaginario, almeno all’inizio, ha abbracciato appieno l’idea del progresso, che non sempre è malvagio, o deteriore, o manchevole di sensibilità e romanticherie…
Uno pensa che la vera fotografia sia su pellicola, esca fuori dalla chimica nelle camere oscure, ma il digitale, oltre che preservare da esalazioni tossiche, permette, come sempre, maggior velocità d’esecuzione.
Il bisogno insopprimibile, per Joergensen era sempre il medesimo: vedere il prodotto finito della sua creazione, nel minor tempo possibile.
Un affamato della propria arte.
All’inizio usava molto Photoshop, per sua stessa ammissione. Le sue creazioni erano assemblate pian piano, livello dopo livello, una sorta di composizione posteriore e corale.
Oggi, per paradosso, che il tempo è minore, dato che è diventato papà, ha reagisto orchestrando la messinscena prima. Ogni dettaglio presente nei suoi lavori è già presente sul set.
A cominciare dal principale e più importante: la luce.
Cosa ci racconta Ole Marius Joergensen? Ci racconta storie. Storie che, proprio perché non sono dei film, devono comunicare ogni cosa in una sola inquadratura.
Certo, sono talmente vaste, queste inquadrature, che ci si sofferma su di esse volentieri. Le si guarda pian piano, scoprendole un poco alla volta, dettaglio dopo dettaglio.
I tempi dell’influenza americana sono finiti, ma non rinnegati, perché, posso dirlo anche io, la cultura dei diner nel deserto ha un fascino lisergico e insieme iperrealista ineguagliabile, ma, come già accennato, è la mancanza di tempo ad aver costretto Ole Marius Joergensen a non andare lontano, a vedere le bellezze dei paesaggi solitari della sua terra selvaggia, a narrare in quelle terre natie, la Norvegia, quelle storie che ancora non gli è riuscito di raccontare.
La postproduzione è sempre presente e parte integrante del suo lavoro.
I suoi scatti sembrano, manco a dirlo, dipinti iperrealisti. L’ora blu illumina incidenti, omicidi, crisi esistenziali profonde, depressioni, gente che guarda attraverso l’obiettivo e scopre misteri turpi.