Howard Phillips Lovecraft si avvia a essere, forse, l’autore di maggior successo del XX e del XXI secolo.
Forse non se ne sono accorti tutti, non a livello conscio, ma questa consapevolezza è proprio come i suoi orrori indicibili, permanenti, striscianti, assertivi.
Entrambi i genitori finiti in manicomio, cresciuto dalla zia, morto di cancro allo stomaco (altre fonti indicano il colon) a quarantasette anni.
Lui stesso raccontava che alcuni dei suoi sogni, che poi sarebbero diventati storie, erano causati dall’indigestione. E ci sarebbe anche da ridere.
Sì, la battuta sulla peperonata che non deve essere mai mangiata di sera, per evitare poi sogni troppo vividi. D’altronde chi non ha mai pensato, patendo l’indigestione, di aver forse ingerito “un orrore lovecraftiano”? Questo è proprio ciò di cui parlo.
Parte del successo di HPL.
A conoscere la sua breve vita non lo direste uno scrittore di successo. Perché non lo è stato. Lottava strenuamente per spaccare il soldo in quattro. E scriveva. Non abbastanza da guadagnarsi da vivere come uno scrittore pulp, pur avendone le caratteristiche.
Lo scrittore scrive. Già.
Non è un gesto romantico, la scrittura, e non è romantico nemmeno lo scrittore.
Lo immagino, HPL, alla scrivania, col dolore alle dita e i polpastrelli macchiati d’inchiostro. Il freddo alle gambe, intorpidite per il poco movimento. Là fuori, oltre i vetri, c’era il New England grigio e piovoso.
Contento magari di aver piazzato un altro racconto “strano” (weird, li definiva lui) su qualche rivista (Amazing Stories e Astounding Science Fiction, per citarne un paio), dove a turno comparivano anche i suoi amichetti di penna Klarkash’ Ton e Bob Howard, e tanti altri.
Questo era.
E poi la notte, gli incubi, il rigirarsi continuo nel letto dando unghiate alle lenzuola.
Strana analogia quella tra i suoi incubi di entità ancestrali e luoghi remoti alla coscienza dell’uomo, che quella coscienza fanno tremare e sbriciolare insieme alla sanità mentale, e il cancro allo stomaco.
Cancro uguale incubo. In senso letterale oltre che metaforico.
Un aspetto, forse, mai molto considerato dai critici della letteratura.
Lo stile di Lovecraft non era eccelso, invero farraginoso. Eppure, forse, quelle ripetizioni, quelle descrizioni verbose e eccessive hanno generato una sorta di canto subliminale, dettato dal ritmo della prosa, che una volta letto ha fatto risuonare la sua cosmogonia, attecchire la stessa nel subconscio dei suoi lettori.
Quindi è pacifico accettare che definire Lovecraft un mediocre scrittore sia errato. HPL era difficile. Dove l’ho già sentito?
Questo stile, che era un canto muto, forse è stato creato proprio dal suo cancro? O forse, come piacerebbe di certo a lui, il cancro è stato causato dallo sconvolgimento che la sola intuizione dei Grandi Antichi ha provocato sulla sua mente umana, troppo umana?
Il cancro allo stomaco è una brutta bestia. E di certo, come altre malattie ingombranti, determina effetti reali sull’umore, sulla percezione, sulla lucidità del pensiero. Le tossine invadono il sistema circolatorio, spesso per anni, causando distorsioni.
E i suoi trascorsi familiari così bui, e il New England stesso, hanno tutti contribuito alla costruzione del suo canto?
Credo di sì.
Così come agli aspetti più miseramente umani del nostro, quali l’essere uomo del suo tempo, imbevuto di razzismo e pregiudizio. Non più di altri suoi contemporanei, certo*. E di sicuro davvero uomo del suo tempo, che giocava a pavoneggiarsi proprio di questi suoi aspetti. Non che fosse necessario avere pregiudizi per eccellere, ma era una cosa che faceva gruppo, creava un’identità, come fino a poco tempo fa fare battute sessiste, salvo poi mettersi a piangere ora che l’offeso si ribella.
Fingere che HPL non sia stato anche questo, oggi, è sciocco. Rifiutarne di parlarne come fosse cosa da nulla – e tapparsi letteralmente le orecchie come fanno i bambini – anche peggio, a mio avviso, in questo secolo di conoscenza.
Perché avere consapevolezza dell’uomo che era HPL ci permette di meglio comprendere la sua opera. Sotto ogni aspetto.
Anche il suo razzismo, e quelle ideologie, hanno contribuito invero al canto, che nonostante tutto è diventato universale. **
Cos’era, quindi, l’uomo HPL? Andrebbe bruciato?
Non diciamo sciocchezze.
Lui è uno dei miei artisti preferiti – attenzione, artisti – così come Stanisław Szukalski***.
HPL non ha avuto una vita di soddisfazioni, e neanche una grande carriera d’autore. E ancora, seri studi di letteratura su di lui si contano sulle dita di una mano.
Ma la sua opera, la creazione di un universo condiviso a cui chiunque – tra i suoi colleghi – poteva contribuire, hanno determinato la transmedialità del suo corpo di suggestioni.
E sono suggestioni talmente potenti che a quasi un secolo dalla sua morte sono ancora vive. Vibranti. E no, non mi riferisco a qualche film e/o scritto sparso, creato da qualche autore che una tantum se lo ricorda.
HPL è tra noi nel quotidiano.
Non passa giorno che non mi imbatta in qualcosa che contenga un suo richiamo, più o meno esplicito.
A cominciare dal linguaggio: unspeakable horror è una definizione che utilizzo io stesso, quasi tutti i giorni, soprattutto in senso ironico, ché ben si addice alla trivialità e incomprensibilità dell’epoca coeva.
E ancora magliette che reinterpretano i suoi miti, la sua cosmogonia, e tonnellate di meme che celebrano lui e il suo canto.
Una eco trasversale, a qualunque latitudine: un tentacolo di HPL che sguscia, bavoso, e guizza rivelandosi è un simbolo che chiunque afferra al volo.
Forse il cancro ha portato quest’uomo a diventare portavoce di quel senso di orrore universale.
Cosmico, s’è detto, nel senso di assoluto, permanente, ineluttabile e inarrivabile, come l’universo.
Perché non siamo alieni dallo spazio che occupiamo, ma parte integrante. Non possiamo scappare.
_______
* Roger LUCKHURST in “The Classic Horror Stories” ci tiene a farci sapere quanto il razzismo di H.P. Lovecraft fosse “typical of its age, but driven towards pathological intensity by Lovecraft’s perception of himself as the last scion of New England civilization.”
** si veda anche S.T. JOSHI, “Lovecraft, a life”.
*** l’uomo dalla firma a serpente, che tranquillamente definisco il più grande scultore di tutti i tempi. E che in gioventù ebbe simpatie naziste. S.S. (strana coincidenza) sopravvisse alla guerra, rinnegò quelle simpatie di gioventù, e tutto ciò che ne rimase era un vecchio, cui la guerra aveva distrutto le sue straordinarie creazioni, spezzato nei suoi sogni dalla vita.