Il film di Álex de la Iglesia del 2010 prende ispirazione dal brano del cantante spagnolo Raphael. Titolo e contenuti della canzone sono alla base dell’opera di quello che ritengo essere un autore gigantesco. E il film in questione è, nella mia personale visione d’insieme, un capolavoro.
In Italia è uscito col titolo: Ballata dell’odio e dell’amore, titolo forse un po’ banalotto e, come spesso accade, leggermente fuorviante. Il testo della canzone di Raphael può anche parlare d’amore, se si vuole interpretarla in questo senso, e senza dubbio l’amore è un elemento presente nel film di de la Iglesia. Ma l’odio non c’entra niente. Il punto d’incontro tra il brano e il film è il dolore di un cuore disperato.
Il primo segmento ci introduce in uno spettacolo circense, dove due clown si esibiscono. Il duo è composto dal pagliaccio triste e dal pagliaccio che fa ridere. Un duo classico, antico come il mondo e ancora in auge. Lo sono Ale e Franz, Ficarra e Picone, Bonolis e il suo pubblico. Esempi di clown che conosciamo tutti (che ci piacciano è un altro discorso). I due clown in questione vengono interrotti dal comandante della milizia repubblicana, che convince la troupe a combattere contro “quei fascisti di merda”. Siamo nella Spagna del 1937, in piena guerra civile.
Il pagliaccio scemo (così definito nel film), armato di machete, sterminerà l’esercito di Franco, ma verrà catturato e imprigionato, insieme a molti altri ribelli. Alcuni di loro verranno giustiziati, altri obbligati a lavorare per la costruzione della famosa croce nella Valle dei Caduti. Il pagliaccio scemo ha un figlio, Javier, che cerca di liberare il padre con un’improvvisata dinamite, nel tunnel in cui è costretto a lavorare. Il ragazzino è motivato a tale atto dopo un’illuminante conversazione col padre (“C’è un modo per essere felici… Burlarsi del destino. Allevia il tuo dolore con la vendetta”), ma la situazione gli sfugge di mano. Il colonello Salcedo uccide il pagliaccio scemo calpestandolo col suo cavallo e nella foga precipita sopra un piccone, perdendo un occhio. Nel delirio, Javier riesce a scappare, ma Salcedo non si dimenticherà di lui.
I primi venti minuti del film raccontano l’atrocità di una guerra civile che ha segnato profondamente la Spagna di quegli anni e degli anni a venire. È una premessa indispensabile, perché la fuga di Javier si interrompe col colonnello che conserva nel portafogli la foto del giovane Javier con suo padre.
E veniamo così catapultati nel 1973. E qui ha inizio la balada triste di Javier, il pagliaccio triste, che combatterà contro Sergio, il pagliaccio scemo, quello che fa ridere tanto i bambini. Si contenderanno una donna, Natalia, la trapezista del circo. De la Iglesia mette in scena la storia di Pierrot, il pagliaccio triste innamorato di Colombina, che a sua volta è innamorata di Arlecchino. Un triangolo d’amore esasperato, perché vissuto sotto la dittatura di Franco. Javier, forte del consiglio datogli dal padre, si tramuta giorno dopo giorno da ingenuo gentiluomo a sadico vendicatore. Ma non è l’odio che spinge Javier a compiere tutte le sue azioni, non è nemmeno l’amore tanto osannato per Natalia. È la disperazione, il dolore indicibile di un ragazzino al quale il regime dittatoriale ha portato via la fanciullezza.
Javier non è mai stato realmente bambino, ha provato solo sofferenza nella sua vita, l’amore per Natalia è per lui l’apoteosi del dolore. E di contro Sergio, presentato subito come un essere orrendo, un alcolizzato che picchia brutalmente Natalia e chiunque lo intralci, vive unicamente per far ridere i bambini, conscio di poter fare solo quello nella vita. Obiettivo unico, totalitario, come avviene in un regime. Javier, infatti, combatte contro di lui, l’antagonista supremo, il rivale in amore, colui che sfama tutto il circo grazie alla sua arte e pertanto nessuno osa contestarlo: l’incarnazione simbolica del dittatore, nella Spagna governata da Franco.
Eccezionale simbolismo di una guerra sociale e individuale, portata in scena da due clown, a loro volta stendardi dell’essere umano: la maschera come messaggio dell’Oscar Wilde pensiero, che ci permette di dire la verità. Anche se questa verità è atroce. La lotta li porta all’estrema mutazione fisica, imposta proprio da Javier, prima su Sergio e poi su se stesso: il mostro è emerso, dipinto sui loro volti, indelebile.
Forse il personaggio cardine che emerge tra tutti in questa ballata allegorica è quello di Natalia: colei che ama due uomini, attratta dalla brutalità di Sergio e al contempo dalla goffa gentilezza di Javier. Donna combattuta da una prepotente dualità. Il dialogo tra lei e il proprietario del circo, che le consiglia di lasciare Sergio, racchiude il senso di tutto:
“Non si è sentito mai schiavo di un amore che sarà la sua rovina, ma non può farne a meno?” dice Natalia. E l’uomo risponde: “Sì, tutti i giorni. Questo circo finirà per ammazzarmi.”
Balada triste de trompeta è un’opera dolorosissima, condita da situazioni grottesche e da alcuni momenti comici (l’incipit con l’irruzione del comandante è piuttosto divertente) e come sempre de la Iglesia utilizza i suoi attori feticcio, inserendo personaggi e dialoghi bizzarri. Ma questa volta, rispetto al passato e al successivo Las brujas de Zugarramurdi, non c’è molta via di scampo. Il finale, da vedere e rivedere all’infinito, è probabilmente tra i momenti più agghiaccianti degli ultimi anni: due maschere che non possono far altro che guardarsi i volti sfregiati, prigioniere del loro passato e delle loro sembianze.
Ballata triste di trombetta per un passato che è morto
e che piange e che geme come me
Con tanto pianto di trombetta il mio cuore disperato
ricordo sempre più il mio passato
Ballata triste di trombetta di un cuore disperato
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