Il primo pensiero, appena finito di vedere Zero Dark Thirty, è stato: sarà un casino parlarne.
E non perché sia particolarmente complicato, ammesso di avere una capacità di concentrazione superiore a quella di un allocco addormentato, ma perché difficile, trattandone, evitare di sfociare in argomenti che, più che al film, sottendono alla storia contemporanea.
Difficile, d’altro canto, disinteressarsi alle sorti di Bin Laden, da quell’11 Settembre 2001. Nel bene o nel male, la politica mondiale degli ultimi dieci anni è stata segnata dagli eventi di quella mattina, primo pomeriggio da noi in Italia: io ero rientrato dopo una corsetta al parco e avevo acceso la tv…
Per cominciare, due curiosità:
1) Zero Dark Thirty è un codice che indica le 00:30, mezzanotte e mezza, ora della cattura di Bin Laden
2) Con la cattura di Bin Laden, è stato necessario riscrivere completamente il finale del film. In origine, la sceneggiatura si basava sui dieci anni di caccia infruttuosa allo sceicco.
E infine, una nota personale, prima di entrare nel merito del film:
Kathryn Bigelow è una regista. Nella fattispecie è la regista di questo film, Zero Dark Thirty, e di tanti altri, uno più bello dell’altro.
E sì, è una donna.
Ma non mi metterò a dire che questo è il cinema di guerra al femminile. Non farò distinzioni retoriche. Perché pur essendolo, non lo è. E trovo la definizione precedente infinitamente riduttiva.
La verità è che Kathryn Bigelow è una regista dal talento encomiabile. E sì, è anche una donna. Bella, per giunta. Ma questo non aggiunge nulla, né sottrae nulla alla sua bravura, che è tale da surclassare molti suoi colleghi, per lo più uomini.
Per cui, a mio parere, sarebbe giusto dire semplicemente che è una regista coi controcazzi. Come spero ne possano arrivare altre, dopo di lei.
E ora, torniamo al film.
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Zero Dark Thirty è la storia della caccia a Osama Bin Laden. Protagonista di questa caccia, in un esercito di colleghi uomini, è Maya (Jessica Chastain).
Maya è una donna, ma è solo un nome, come tutti i suoi colleghi. Nessun personaggio del film è privilegiato rispetto all’ossessione principale: la cattura di Bin Laden.
Importante per capire, visto che il protagonista del racconto è l’ossessione, l’ossessione di questa donna che per dieci lunghi anni non ha lavorato ad altro, non s’è concessa una vita personale, si è annullata completamente al lavoro.
Inquietante, a dirla tutta. Ma la sensazione che se ne ricava, guardando questo film è proprio quella: che i protagonisti di questa vicenda siano ingranaggi mossi da un motivo unico. Qualcosa che va oltre la dedizione.
Bigelow ci mostra primi piani serrati, sui volti dei protagonisti, volti tesi che, insieme alle inquadrature strette, quasi degli squarci, delle terre desertiche che ospitano alcuni di questi scenari, trasmettono tutta l’atmosfera di una guerra sotterranea, rinunciando a ogni principio di retorica.
Empatizzare con Maya è concesso fino a un certo punto, dato che rarissimi sono gli spazi della narrazione dedicati a descrivere la protagonista al di fuori del lavoro, e i pochi momenti di gioia sono collegati ad altrettanti progressi nella caccia al terrorista.
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Si inizia in the middle of action, con Maya in visita a un campo di prigionia, dove un sospetto terrorista di Al Qaeda viene torturato per ottenere informazioni. Torturato da agenti CIA: tortura dell’acqua, privazione del sonno e altre cosette.
Quello che sorprende, abituati nostro malgrado a certa retorica patriottistica del cinema americano, è che la cinepresa di Kathryn Bigelow si limita a mostrare l’accaduto, nella maniera più diretta e onesta possibile. Vediamo ciò che vede Maya, nessun personaggio si permette il lusso di esprimere opinioni in merito, né lo fa la regista per loro bocca, agli eventi narrati: la facoltà di giudicare è lasciata completamente allo spettatore.
La Caccia a Bin Laden è avvenuta sotto due presidenze, Bush e Obama, con la seconda che ha perseguito e osteggiato i metodi spicci, definiti da ex-agenti CIA “enhanced interrogation techniques”, tecniche di interrogatorio rafforzate, riferendosi alle torture. Tale cambio di politica è annotato nei procedimenti con cui gli agenti perseguono il loro obiettivo, non mancando anche riferimenti al fallimento della precedente gestione che ha portato alla caccia alle armi chimiche fantasma in Iraq.
Anche qui, manca ogni traccia di polemica, dalle torture si sono ottenute informazioni sensibili, sembra suggerire il film, tanto che alcuni attori hollywoodiani si sono pubblicamente dissociati da questo “messaggio”. Come detto, manca qualsiasi accenno a una critica che, a questo punto, avrebbe solo avuto il sapore di schieramento politico, abbassando la qualità del risultato finale.
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La tortura è stata praticata e, a un certo punto, è stata vietata: nessun rimpianto o scene dedicate a rimorsi di coscienza fasulli. Si sta parlando di una Guerra: una guerra sporca, sulla quale s’è detto di tutto. Inutile nascondersi. Si cambia semplicemente metodo, incrementando la sorveglianza elettronica e le intercettazioni, nel mezzo di attentati dinamitardi. Fino a quando, localizzando il probabile portavoce di Bin Laden, non si giunge a individuare quella famosa casa ad Abbottabad, in Pakistan.
Solo la sequenza del blitz dei Seals nella villa dura venticinque minuti. Tanto, penserete voi. E invece, rispetto a ciò che è avvenuto in realtà, la durata è stata anche ridotta per esigenze di scena.
Blitz girato con estremo realismo, freddezza e spietatezza, oltre che capacità tecnica, laddove si esprime al meglio, avendo iniziato così la sua carriera, la consolidata abilità della regista nelle scene action.
Perfezione strutturale dal lato dell’azione militare, quanto precisione chirurgica nel narrare una storia lunga dieci anni, compressa in 157 minuti.
Alla fine, non si sa se la cattura di Bin Laden sia stata utile oppure no, nemmeno quello ci viene suggerito. Sappiamo solo che l’ossessione è finita.
Un reportage privo di voce narrante concentrato solo sul mostrare la via, senza interpolazioni di sorta, senza piaggeria, senza false prese di posizione moralistiche o occhieggianti a questa o quella parte politica. Che ovviamente, stando a quello che si legge in giro, proprio di questo si lamenta. Patetico.
Forse l’unico modo per girare un film complesso come questo.
Prima ho accennato a inquadrature strette, che sono un modo per soffocare l’immaginazione, per imporre un ritmo serrato, ho dimenticato di dire che, le poche volte in cui si concede allo spettatore una panoramica, è per mostrare un’esplosione devastante. Quasi una messinscena simbolica di cosa hanno rappresentato, questi ultimi dieci anni, per una parte del mondo.
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La recensione di Lucy