Underground

Verso il disastro: l’isola del Dott. Moreau

This is what you want
This is what you get (Public Image Ltd., The Order of Death)

A volte gli eventi sembrano profezie.
Come quando Richard Stanley, da bambino, si imbatte in una copia di L’isola del dott. Moreau di H.G. Wells. Un volumetto dalla copertina rosso fuoco, il cui dorso spiccava su tutti gli altri, dagli scaffali della libreria dei suoi genitori. I quali, per i contenuti del libro, glielo vietarono.
E così inizia la storia, con un’ossessione, come tante altre.

Richard Stanley, dall’alto della sua montagna in Francia, storicamente l’ultima roccaforte dei Catari, dove “la gente normale cinse d’assedio e massacrò i diversi di spirito”, come Crom, se ne frega di tutti noi e stringe durante l’intervista, come un cimelio magico, una vecchia maschera di gomma, consunta dal tempo: roba trafugata dal set.
Una maschera che ha una storia incredibile da raccontare.
Si parla, in queste settimane, di sogni spezzati, possibili capolavori mai nati, infrantisi contro la stupidità e il disinteresse.
Ma questa storia va oltre le ambizioni sfrenate di Jodo e del suo Dune, qui c’è la magia, il precario equilibrio mentale, strani eventi, star arroganti che facevano la guerra per capriccio e una visione che è stata affogata da un ciclone tropicale.

Da queste parti c’è affinità di spirito e vedute con Richard Stanley. E conoscere la sua storia fa bene, ti spinge alla meditazione, a non farsi prendere dall’affanno, ti devasta perché, nel tuo piccolo, hai vissuto esperienze ugualmente distruttive e totalizzanti. Ti scopri a comprenderlo bene, Richard, molto più di quanto vorresti.

Si parla di un regista al suo terzo film, che col secondo aveva racimolato qualcosa come 40.000 sterline. Di debiti. Cose che succedono a chi non si lascia calpestare.
L’isola del Dottor Moreau, tanto per dare ascolto a quell’ossessione coltivata fin da piccolo, può diventare un ottimo, terzo film. Qualcosa con cui risollevarsi.
Richard piace, così giovane e così complicato. Approda a Hollywood, entra in contatto con la New Line Cinema, che all’epoca ha già prodotto Nightmare, tra gli altri, ma che non è mai stata presa sul serio.

“Con un film puoi fare tanti soldi, ma con un film come Nightmare non guadagnerai mai il rispetto”.

Eh, esattamente così. Una storia sentita tante volte. Hanno vinto i ragionieri, lo sappiamo.

Però lo storyboard e la concept art presentati da Stanley piacciono molto. L’isola promette d’essere visionaria: tutto inizia con un parto, la nascita di un nuovo Messia, una donna dà alla luce un neonato bestiale, una nuova specie. E poi rituali, maschere, danze tribali e sacrifici di sangue, per una storia transumanistica.

Spunta il nome di Marlon Brando, ché la New Line vuole essere presa sul serio, stavolta. E poi c’è un’altra cosa: pare che il Colonnello Kurtz, personaggio dal quale Brando era rimasto stregato, sia stato ispirato – anche – a un avventuriero, il nonno di Richard Stanley, che fece scorrerie in Africa. Questo è destino, che passa attraverso la stirpe Stanley, Coppola, Brando, la New Line e ancora Stanley.
Richard, che all’epoca aveva a stento trent’anni, viene ricevuto da Brando nella sua villa sulle colline di Hollywood, celata agli occhi del mondo da una foresta di bambù piena zeppa di telecamere di sorveglianza, un posto da cui hai l’impressione di non uscirne vivo, il rifugio californiano del colonnello Kurtz. Dove lui impera e plasma il mondo a sua immagine.

C’è una cosa, Brando ‘sto film non lo vuole proprio fare. Non ci crede.
Ma Stanley racconta a Brando del suo antenato, Brando accetta, forse anche grazie alle magie che un amico stregone di Richard, rimasto in Inghilterra, sta effettuando per incanalare energie positive nell’impresa.

Il progetto passa da 8 a 35 milioni di dollari, circa 70, se fosse stato fatto oggigiorno. Si sposta in Australia, dove la location consente e consiglia di ambientare l’isola. Viene in qualche maniera arruolato e poi escluso Bruce Willis, alle prese col divorzio da Demi Moore, e si arriva a Val Kilmer, che all’epoca fa Batman.
Ecco, immaginate Val Kilmer al suo apice, che stronzeggia come Iceman in Top Gun, che fuma e mette il becco in ogni questione riguardante il film, un film, l’Isola del Dott. Moreau, che proprio non vuole fare.

Questo, insieme al ciclone tropicale che devasta il set, prostra un giovane e fragile Richard Stanley, che deve pure fare i conti col lutto che colpisce Brando a inizio riprese: la figlia di quest’ultimo si suicida. E lui sparisce dalla circolazione.
Per un paio di mesi lunghissimi non si sa neppure se il film si farà.
Il girato è nullo o quasi, ma per i costumi e tutto l’allestimento sono stati spesi bei soldini. Gli attori stanno in albergo a fare nulla, Richard Stanley vaga ai limiti della giungla, quando ha la notizia che la casa di sua mamma è stata colpita da tre fulmini, tutti bene ma ingenti danni, e poi di essere stato silurato dalla produzione, sostituito da John Frankenheimer.

Brando ci sarà. Ci sarà anche Kilmer.
L’unica che s’incazza è Fairuza Balk, giovane star di Giovani Streghe, con Richard, nel frattempo, è stata amicizia a prima vista; non può credere che nessuno, NESSUNO, tra cast e troupe si sia levato a difesa del giovane regista.
E nemmeno lei può, “altrimenti la tua carriera è finita”.
Fairuza Balk rimane, ma la sua carriera finisce lo stesso.

Cose che capitano a Hollywood. A chi dice come stanno le cose.

Nel frattempo, sul set è il delirio, perché Brando e Kilmer non hanno cambiato idea: questo film non lo vogliono proprio fare.
E così, mentre Val passa il tempo a stronzeggiare e molestare gli operatori bruciando loro i lobi con le sigarette, Brando si rende ridicolo bullizzando chiunque sul set e pretendendo di girare tutto il film con accanto quello che poi diventerà il suo miniMe, l’uomo più piccolo del mondo: Nelson de la Rosa.
Del film non gliene fotte niente, parola di Fairuza Balk:

“Qui sul set nessuno sa quello che sta facendo, l’importante è essere pagati”.

Ottimo e abbondante. Brutale.

Poi un giorno capita che Marco Hofschneider, attore tedesco ridicolizzato da Brando, che ha visto la propria parte scippata dall’uomo più piccolo del mondo, stufo delle orge tra attori vestiti da bestie e della droga fumata per passare il tempo, s’allontani dal set/albergo con un gruppetto di ribelli in una gita esplorativa: risalgono il fiume nella giungla e lì, nel profondo, in un avamposto sconosciuto, come fosse il colonnello Kurtz, ritrovano Richard Stanley, le cui tracce s’erano perse il giorno che era stato licenziato. Se ne sta lì a farsi passare la bile e a viaggiare stando fermo.

Non può finire in questo modo, la curiosità è forte, così uno degli attori, quello con la maschera di cane, cede il proprio costume a Richard, che torna sul set travestito, per vedere coi propri occhi lo scempio del suo sogno. In modo che il cerchio si chiuda.
La notizia che ci sia Stanley dietro una delle maschere serpeggia impazzita tra i ranghi di Frankenheimer, si teme che, preda di un attacco d’ira, Richard possa dare fuoco a tutto, Brando e Kilmer compresi.
Ma non succede.
Questa è la storia di una sconfitta. Amara.

Il film si fa, è un disastro sotto ogni punto di vista.

Richard Stanley se ne va in esilio in Francia, a suo dire incapace da allora di avvicinarsi a una macchina da presa.

Quel che resta è una maschera di cane, decomposta dal tempo. Il mondo, nel frattempo è andato avanti, fagocitando tutto il resto.

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