Underground

Saluti da ‘salem’s Lot

«[…]Tu sei stato al college, Ben?»
«Ci ho provato. Ero iscritto a Lettere. Ma sembrava che giocassero tutti a una versione intellettuale di bandiera, lo sport preferito era ciurlare nel manico con l’obiettivo di diventare famosi e amati. E comunque ho mollato. Quando sono cominciati ad arrivarmi i soldi per La Figlia di Conway caricavo sui camion casse di Coca-Cola.»

Peyton Place con i vampiri.
‘Salem’s Lot segna, a dire dello stesso King, la sua personale etichettatura da parte della critica, come scrittore dell’orrore.

Quella critica che, ormai, è morta. Per la maggior parte, per sopraggiunti limiti biologici. Altri, sospetto, uccisi con un paletto nel cuore.
Mentre King ha compiuto settant’anni pochi giorni fa. Auguri.
Poco gli importava di essere etichettato, importava che gli arrivassero gli assegni. I soldi.
Continuo a rileggere King, per il gusto di trovarci qualcosa di più del semplice romanziere dell’orrore. E badate, non vado cercando letteratura, ma personalità.
Ciò che i critici s’inventano, dopo aver letto una storia, è affar loro. L’importante, subito dopo gli assegni, è che la storia sia ben scritta.
E per me, è questione anche di personalità.

Ecco, King descrive in una sola battuta, il peggio della facoltà di Lettere.
Lo so perché ci sono stato.
A differenza di Ben Mears non ho mollato, ho proseguito fino alla fine.
Non sono mai arrivati assegni, quindi ho completato gli studi, ma l’atmosfera era identica: la maggior parte degli studenti di lettere è lì per atteggiarsi.
Ci si conciano, addirittura.

Non dimenticherò mai un mio coetaneo che vestiva, a vent’anni, con impermeabile, bastone e pipa. Ah, portava anche un cappello.
Cioè, ve lo immaginate un ventenne con una pipa. Una calamita per le prese per il culo.
Sembrava uscito direttamente da Gli Intoccabili.
Capite, no?
A vent’anni, con rispetto parlando, non avendo ancora completato gli studi o scritto altro di noto alla specie umana, non sei nessuno. Non puoi permetterti di atteggiarti a grande giornalista.
Ma le cose stavano – e stanno – così.
Stai lì, nei corridoi dell’università, e ti senti circondato da gente che indossa vestiti di scena, solo che non sei a teatro, ma nella facoltà di lettere, dove tutti vogliono essere adorati come fenomeni delle parole, essendo incapaci, per la quasi totalità, di eseguire semplici operazioni di calcolo, e men che mai di tradurre un testo dal latino. O dal greco.
Il latino, soprattutto, fa paura. Fa paura la prova scritta. Meglio sostituirla nel piano di studi, con qualche esame stupido, tipo sociologia di stocazzo.
L’italiano, per quanto storpiato, rispetto al latino ha sempre la scusa del flusso di pensiero.
Una visione insieme romantica, ignorante e incredibilmente sciocca. Al pari di quelli che scrivono poesie ignorando la metrica.

Una visione che arriva fino ai social network, dove, indovinate un po’, questi attori vogliono essere, nell’ordine (e nelle immortali parole di Ben Mears):

– famosi
e
– amati

Non manca nulla. Il quadro è perfetto.
Poco importa se non ci mangiano, da quello che scrivono. Loro scrivono perché sono dei fenomeni, che magari campano compilando, che so, cartelle esattoriali.

C’è sempre quella sensazione di accerchiamento, da parte di gente che vuole solo ciurlare nel manico e atteggiarsi a intellettuali sull’orlo della fine del mondo.
C’è crisi, i lavoratori vengono oppressi, il mondo è sull’orlo di un conflitto nucleare suscitato da due imbecilli (pure brutti, che paiono due Muppets), e loro si atteggiano a grandi intellettuali, grandi penne che sono finiti a scrivere su facebook il loro sdegno per le cose viventi.
King è il loro maestro incontestabile, un maestro che, ho sempre più forti sospetti a riguardo, non hanno mai letto, ma hanno desunto dai film che da lui sono stati tratti.
Perché non dimenticavo che il maestro scrive mattonazzi da mille pagine. E chi ha tempo per mille pagine una di fila all’altra, oggi?
Un King di seconda mano, insomma, edulcorato dalle parti che, inevitabilmente, li stigmatizzano senza pietà.
E loro non se ne accorgono. Perché non lo sanno, che King ha scritto di loro queste cose.

All’equazione di King, non mancando la tecnica e la voglia di scrivere, mancano solo i soldi.
King ci ha regalato, a nostro rischio, l’illusione di un mercato perfetto, in cui tutti noi, avendo il manico (ma senza ciurlarlo), avremmo potuto essere pagati e campare delle nostre lettere.
Poi ci siamo svegliati, e ciò che ci è rimasta è la passione e il tentativo estremo e rischioso di cambiare il malcostume del non pagare.
Lo si fa per passione, no?

Lo si fa perché si è un dono divino prestato alle lettere?

No, il motivo è mangiare, non venire etichettati, o essere famosi o adorati.
Mangiare è il motivo.
Ogni alto aspetto che somigli anche solo vagamente a un titillamento per la vostra anima signfica andare fuori strada, diventare un attore su un palcoscenico che, davvero, di recite non ne ha bisogno, vuole solo buona scrittura.

La buona scrittura, quella che vi inchioda a un libro tutto il giorno. Quella, almeno, ve la ricordate?

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