Underground

L’eredità di Ben

Probabilmente, più di qualche spettatore, guardando Get Out (Jordan Peele, 2017) ha accostato a quest’ultimo La Notte dei Morti viventi (George A. Romero, 1968).
Mi riferisco soprattutto alla scena finale.
In cui sembra debba accadere qualcosa, ma dove quel qualcosa non accade, non come ci si aspetterebbe. E che, al contrario, sembra quasi un finale consolatorio, posticcio, ma che, a ben guardare, non lo è poi tanto.
Né posticcio, né consolatorio.
Parlamo della portata storica di tale opera.

Occorre fare un salto nel passato. Fino al 1968.
Duane Jones fu il primo protagonista di colore nel primo “film horror moderno” della storia. Un ruolo di un certo peso.
E, sebbene Romero fosse, già nel 1968, talmente avanti da aver scelto Jones non in quanto nero, ma perché lui aveva semplicemente sostenuto il provino più convincente, la storia esige fatti esemplari, allo stesso modo non nati in quanto tali, ma divenuti tali, esemplari loro malgrado.
Lo stesso Duane Jones amava ripetere:

“It never occurred to me that I was hired because I was black, but it did occur to me that because I was black it would give a different historic element to the film.”

“Non mi è mai capitato di essere assunto in quanto nero, ma mi è capitato che, proprio in quanto nero, avrei impresso un significato storico differente al film.”

Perché Jones è Ben. E Ben è l’ “eroe”, non particolarmente intuitivo, piuttosto assertivo, della Notte dei Morti viventi, che viene ammazzato nella scena finale proprio da un redneck, quel rappresentante di un’America rurale e retrograda, palude dove il razzismo è stato coltivato di pari passo al cotone.
Noi non cantiamo vittoria in quanto europei, eh, il razzismo e la conseguente palude culturale sono il substrato odierno anche nostro.
Senza contare il fatto che l’omicidio di un nero, probabilmente scambiato per uno zombie – o forse no – rammentava le morti di King e Malcolm X.
Diciamo che le scelte fortuite (esemplari) di Romero hanno sposato il periodo storico alla perfezione, hanno trovato terreno fertile perché la storia s’impossessasse della Notte dei Morti viventi e ci cucisse attorno quella che è diventata una portata storica “rilevante”.

Credo che medesima ambizione e casualità possa spettare a Get Out di Peele. Al di là degli zombie, elemento mancante, ma ben sostituito dal senso d’assedio che soffre il protagonista, Chris Washington (Daniel Kaluuya), circondato da bianchi tutti uguali, tutti ugualmente d’accordo nel portare avanti i loro piani insensati. Tra vivi morenti e morti viventi, si arriva a capire, non c’è tutta questa differenza.

La diversità, se vogliamo, è il momento: sono passati quasi cinquant’anni, tra i due film.
Si sogna di poter dire che il razzismo ce lo siamo lasciato alle spalle, ma non è così.
La società è sempre, ineluttabilmente – a questo punto – segnata da tali manifestazioni illogiche di gusto e pregiudizio, solo che è molto più ipocrita.
Il razzismo è solo messo sotto il tappeto, sotto l’ipocrisia dell’apparenza.

C’è un momento in cui il padre della fidanzata bianca di Chris si vanta di aver votato Obama.
Ecco, Obama, più ancora di Chris, è il Duane Jones prestato alla politica, in teoria assurto alla presidenza degli Stati Uniti non in quanto nero, ma… il fatto che lo sia assume rilevanza storica, dà un sapore differente all’intera questione politica e razziale degli Stati Uniti e, per estensione, del mondo.
Vantarsi di aver votato per lui vuol dire dare a intendere di essere persona positiva, progressista, liberale… e magari è anche vero, solo che è altrettanto vero che l’ipocrisia che maschera il razzismo, la misoginia, l’anti-semitismo e che fonda l’apparenza sociale odierna si incentra sulle medesime basi.

C’è poi il fatto che, in quanto opera destinata a un pubblico, Get Out, esattamente come La Notte dei Morti viventi, trascende la volontà dell’autore e diventa storia.
Chris non è Ben, non è l’eroe casuale che si trova suo malgrado a difendere la ragazza bianca, la damsel in distress, circondato dagli zombie, sottoprodotto di strane radiazioni o del logorio della vita moderna, che fa la storia in quanto protagonista di un film di bianchi destinato, si suppone, a un pubblico di bianchi (ma no, Romero non pensava di certo al suo pubblico, lui era avanti). Chris è un nero, oggi, circondato – anche – dall’ipocrisia, da chi in fondo detiene tuttora il potere e non vuole cederlo (non lo fa nessuno, mai); Chris è l’essere umano soggiogato dal sistema, costretto a guardare la TV (perché ipnotizzato), che, peggio ancora, s’illude di godere di una certa autonomia, ma che, a tutti gli effetti, non ne ha.

“A mind is a terrible thing to waste”
“Una mente è una cosa terribile da sprecare”

Chris sopravvive alla notte, anche lui come Ben. E arriva al finale in cui sembra, in tutto e per tutto, che Peele voglia ricalcare il senso di vuota impotenza cui soggiace il protagonista romeriano.
Ma no, c’è un’inversione di marcia improvvisa.
Peele comunque sembra suggerire l’idea che sono passati quasi cinquant’anni – 49, ndr – e che, forse, il redneck là fuori non è più così forte, o letale, non quanto i falsi liberali, i lupi travestiti da agnelli del progresso e della tolleranza.

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