Underground

Le dimensioni continuano a contare

Otto anni a scrivere su queste pagine e, nonostante tutto, nessuna voglia di smettere.
Posti così non si chiudono.
E, in otto anni, di cose ne ho viste.
Fui uno dei primi, ad esempio, a notare il sistema di mutuo commento: blog piccoli aperti dall’altro ieri che potevano fin da subito vantare trenta-cinquanta commenti a ogni singolo post.
All’epoca dei blog, si faceva così per dare l’idea all’ignaro (e onesto) visitatore si fosse imbattuto in un blog coi controcazzi, da seguire di sicuro. Grosso tra i grossi.
Cui prodest?

Sempre all’epoca, al padrone del blog in questione. Neofita, appena arrivato, ma con la voglia di emergere, a qualunque costo.
Così, per pura vanità e per impazienza. Per potersi vantare di avere un blog grosso.
Qualcosa a metà tra il maturbatorio e la gara al blog più lungo, grosso, con più commenti.
Materiale per l’ego.

Ma in otto anni la rete s’è evoluta veloce, e i social network si sono mangiati tutto il resto.
Quasi tutto s’è traferito altrove, ego compreso, cambiando pelle, con un’unica eccezione.
A farla da padrone sono sempre i numeri.

Quanti like ha la tua pagina?
Quanti follower hai su Instagram o su Twitter?

E via dicendo, cambiando solo il nome del social media esaminato.

Che ci crediate o no, in certi ambiti, chi avanza proposte per ottenere un lavoro di rappresentanza, si sente chiedere solo questo. Il curriculum non serve più a nulla, serve solo un grosso seguito di seguaci.
Un’ampia base di occhi e orecchie da infarcire di pubblicità mirata tramite i famigerati cookie di profilazione.

Ma lo sappiamo, questa è la rete, e se ci bazzicate da un po’ saprete quanto può essere difficile far crescere i propri account al naturale, tramite il supporto disinteressato e entusiasta dei fan.
Specie oggi, che di distinteressato non c’è praticamente più nulla. Nemmeno i fan.
Che sono lì non per supportarti, nella maggior parte dei casi, ma per prendere il tuo posto.
Un habitat per caimani.

Anni fa erano tutti alfieri del libero scambio, ora fanno a gara per farsi pagare denunciando alle autorità quegli stessi siti di pirateria sui quali si sono riforniti per anni di materiale protetto da copyright.

Ma non divaghiamo, ragioniamo piuttosto.

Per ipotesi:

Sono uno yuppie rampante dell’internet 2.0 (2.5, va)
Sono bravino
Possiedo una pagina facebook, un profilo instagram sul quale condivido le mie foto perfette create ad arte per adescare like, faccio il cinico d’assalto su twitter, lanciando frustate morali a chiunque, politici in primis

Eppure…

I miei follower non ammontano che a poche centinaia
Mentre vedo, accanto a me, pagine di perfetti cialtroni che, al contrario, ne contano decine di migliaia. All’apparenza, e per giunta, senza alcuno sforzo o qualità di contenuti

Cosa sta succedendo?

Succede che qualcuno (non le celebrità, ma i perfetti sconosciuti, sì, loro: i vostri vicini di profilo) ha contattato un servizio che ti garantisce pacchetti di seguaci su qualunque social network.
Con l’esborso di modiche cifre si può incrementare il numero (la grossezza, sic!) della propria pagina social media per dare l’idea di essere dei fighi astronomici e fare in modo che chi ha l’interesse a investire in questo mercato, debba scegliere proprio te!

Anche qui, nessuna novità vera e propria. Già anni fa, lungimiranti imprenditori indonesiani vendevano su Twitter pacchetti di seguaci: mille, cinquemila, centomila, cinquecentomila! Che, una volta attivati, proiettavano istantaneamente il profilo dell’acquirente nell’Olimpo della celebrità immediata.
E che svanivano altrettanto rapidamente. Nel giro di un mesetto scarso. Dopotutto, che cazzo ci fanno dei follower indonesiani coi tweet di un italiano presuntuoso e avido di gloria?
Niente.
Esatto.

Taylor Switf, secondo Twitter Audit, sarebbe la Regina di Twitter, con solo il 12% di follower fake sui suoi ottanta e passa milioni.

Questa parola, niente, sembra la chiave di tutto.
Oggi l’informatica ha fatto passi da gigante. Bot sempre più realistici vengono arruolati per andare a incrementare il numero di follower degli acquirenti (dopotutto non costano niente, sono dei bot). Ma, ehi, sono anche i più facili da scoprire.
Esistono servizi appositi per riconoscerli. E contarli. Come, ad esempio, Twitter Audit.

Secondo Twitter Audit, Katy Perry, che ha da poco superato (prima nella storia) i cento milioni di follower su Twitter sarebbe seguita, per oltre il sessanta percento, da bot. In pratica, circa 67 dei suoi 100 milioni di follower sono bot.
O, per meglio dire: non esistono.
Twitter nega, togliendo a Twitter Audit qualunque esattezza o credibilità, ma il dubbio rimane.

Personalmente non ritengo che Katy Perry abbia mai avuto necessità di rimpolpare il numero dei suoi follower acquistando pacchetti. Ma il problema dei bot è quello, una volta che esistono, devono solo trovare un bersaglio da seguire.

Ma c’è anche altro.
I bot, se credete a strumenti come Twitter Audit, si possono smascherare facilmente. Con conseguente figura caprina per l’acquirente, possessore di una celebrità finta come i soldi del Monopoli.
Che fare, allora, se la brama della fama non si sazia?

Niente paura, ci sono servizi che, per la solita modica cifra, offrono pacchetti di follower reali, che interagiscono, garantiti al 100%.
Servizi seri (non faccio nomi, cercateli, dopotutto siete su internet), che possono garantire il celeberrimo soddisfatti o rimborsati, nel senso che se i follower (che arrivano, garantito) se ne vanno, si può inoltrare un reclamo e allora il servizio ve ne manderà altri, compresi nel prezzo.
Follower reali che, in teoria, dovrebbero garantire alla vostra pagina social media un flusso costante di interazioni: in pratica movimentarla un po’, per far sì che risulti vera.
Per concretizzare la vostra fama, e far esclamare a coloro che cercano testimonial per i loro prodotti: “Ecco, abbiamo trovato il nostro influencer! Diamogli un contratto di decine di migliaia di euro l’anno!”.

Parallelamente, c’è gente che invece fa parte dei follower, ovvero rende disponibile il proprio profilo perché sia indirizzato verso i profili da “ingrossare”.

Pratica masturbatoria evoluta. O 2.0 (2.5, va).
Ma stavolta dietro non c’è solo gloria, ma soldi veri, almeno per le aziende che offrono questi servizi. Per chi spende, di solito, il risultato è un priapismo del profilo social, doloroso e infertile.
Perché è celebrità artificiale, non creata passo dopo passo. Ottenuta, quindi, senza disciplina. O conoscenza. Senza arte né parte.

La domanda che resta è sempre la stessa: cui prodest?
È lecito gonfiare un mercato costruito sul nulla e che si nutre di nulla?
E poi ammettiamolo, se voi foste un pubblicitario e doveste scegliere il vostro testimonial, a chi affidereste l’incarico? A chi di follower ne ha un milione, garantiti, quasi tutti attivi, o a chi ne ha solo cinquemila?

Rispondetevi da soli.

Ecco l’ingresso ufficiale nell’era dell’apparenza. Dove sul serio, non importa chi sei, contano solo le dimensioni.
Dei social media.

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    • 7 anni ago

    Ottimo articolo, hai aperto la porta a un mondo poco noto, ma tutto da esplorare.
    Secondo me questa faccenda dei social gonfiati, e della precedenza che gli algoritmi (e anche le aziende) danno a essi, creerà presto una bolla speculativa virtuale enorme.
    Che poi i guru continuano a dire che l’importante sono i contenuti, ma chi ha i soldi e cerca – per esempio – testimonial pubblicitari guarda quasi esclusivamente a soggetti dai 20.000 followers in su. Che siano reali, comprati o bot, importa poco.
    Alla faccia dei contenuti.

    • No, l’importante non sono i contenuti, se puntualmente gli algoritmi prediligono i post sponsorizzati, ovvero quelli pagati.
      L’importante sono i soldi. Questo è chiaro.