Underground

Le cowgirl di House

All’apparenza, il lavoro di Felice House è semplice.
Sceglie delle modelle, le veste in stile western – anzi, nello stile western desunto dai classici del genere: quindi guardando i nomi sacri, John Wayne, Clint Eastwood, etc… – le fotografa davanti ai meravigliosi scenari del Texas, dell’Arizona o del Colorado e, su quelle foto, ci imbastisce dei dipinti di grandi dimensioni, tali da riempire pareti, o stanze, tali da farli svettare sugli spettatori.
E sono dipinti estremamente interessanti, nella perizia dell’esecuzione, nella ricchezza del dettaglio, se si guardano, ad esempio, gli stivali.

All’apparenza, dicevo.
Perché poi ci si sofferma sull’identità di questa artista e di queste modelle. E sullo scopo dell’operazione: ovvero ritrarre delle donne nei ruoli solitamente (ed esclusivamente) riservati agli uomini, nel genere western.

Sono donne, che prendono il posto, negli abiti e nelle circostanze, che è stato di certi uomini. Diciamo più di un semplice posto, un ruolo, il compito di divenire icona.
Non è la prima volta. Ci sono già stati dei film che hanno provato questa inversione, ma è singolare che questo tipo di operazione, fatta oggi, ancora risenta di reazioni accese da parte del pubblico.

E mi scopro sorpreso di quanto, questa semplice verità, ovvero il cambiamento di genere “sessuale” sia percepito come un problema. Sì, diciamolo.
Non personalmente. Al contrario, io sono talmente rilassato di fronte all’estrema duttilità dei generi e delle etnie, da restare quasi sempre sconcertato di fronte alle polemiche che puntualmente invadono l’internet, inerenti al cambiamento di sesso/etnia/colore dei capelli/etc… che quel personaggio ha subito e che, in verità, avrebbe dovuto conservare. Per amore della tradizione.
In nome di non so bene cosa: un conservatorismo della “giusta” memoria?
Se Nick Fury è bianco allora non può essere interpretato da Samuel Jackson? Bisogna conservare il giusto livello di melatonina nella pelle?

Non so…

La giusta memoria…

Ebbene, se il cinema e la letteratura hanno relegato le donne, nei western, a essere solo prostitute o a morire di parto circondate da una mezza dozzina di figli e col marito rapinatore, allora, secondo il sentire comune, questo dovrebbero continuare a fare. Per sempre.
Un po’ come una società composta di caste non effettive, ma ideali. Astratte, ma in effetti capaci di influenzare la realtà, di limitarla entro uno schematismo rigido, inviolabile pena la polemica infinita.
Una mostruosità, una distorsione di certi idealismi.
Ché non sempre a difendere un’identità corrisponde un’ideale di giustizia.
Le donne non devono indossare i panni del Grinta, non devono essere come Clint Eastwood.
Oppure, se proprio devono passare dall’altra parte e fare ruoli da uomini, devono farli vestite con tutine succinte e mise sexy.

Ehm…
Perché?

E la cosa, benché se ne parli da anni ormai, è ancora, sempre, attuale.
Perché ancora oggi la raffigurazione della donna nel fantastico corrisponde quasi esclusivamente a certi canoni. Che non arrivo a definire sbagliati in sé, ché credo bisogna distinguere caso per caso, ma che sono effettivamente gli unici. E tali che, per certa mentalità di conservatorismo attuali, diventano, oltre che unici, inviolabili. Specialmente dalle donne, che vengono immaginate così e così ritratte da artisti uomini e che, quando osano prendere l’iniziativa e proporre, badate bene, non un diktat, ma un’alternativa, vengono ricoperte di critiche.

A vedere queste donne, dipinte in questo modo, non percepisco alcuna discrepanza. Sono magnifiche.
Persino con la benda sull’occhio. Di sicuro affatto ridicola, mentre John Wayne con la benda sull’occhio, be’, parliamone…
E sì, continuano a essere sexy.
Ma qui non è questione di mostrare o non mostrare, è questione di bellezza e grazia. Di un’epoca perduta, il west, e spesso travisata, manipolata perché fosse più spendibile.
Dire che il genere western sia stato egemonizzato dall’uomo bianco è vero. Egli ha ritagliato per sé il ruolo dell’eroe, dell’anti-eroe, persino del becchino.
La storia ci insegna, ad esempio, che i cowboy neri non erano così infrequenti. Un Django (tarantiniano) che andava a cavallo non sortiva poi così tanto stupore.
Le fonti sono disponibili, in internet, circa i cowboy neri. Sono lì, a portata di mano, basta cercare.
Ma la storia, appunto, va approfondita, studiata e infine capita.
Perché capire che l’umanità è tale senza regole e infrastrutture, senza gerarchie, senza distinzioni di genere e razza è la chiave, l’unica, per ciò che tutti gli esseri viventi perseguono: l’evoluzione.

E, prima di chiudere, accompagnato da questa carrellata di lavori spettacolari, faccio una piccola ammissione: a me piace la scream queen, la reginetta dell’urlo, quel personaggio tipo che, di fronte a un pericolo, urla.
Non lo uso, in effetti, nei miei scritti. Ma mi piace esteticamente, mi piace il ruolo, e adoro le variazioni sul tema.
Mi piace non in quanto donna, ma in quanto ingranaggio di un tipo particolare di letteratura horror.
E sì, di solito il ruolo della scream queen è riservato a una donna. Se un giorno mi proponessero uno scream king non penso, però, che griderei allo scandalo e che invocherei una crociata.
Penso che starei a guardare. Con curiosità.
Come sto a guardare queste cowgirl che non usurpano alcunché.

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