Underground

La dipendenza in Jessica Jones

Would you put day drinking under experience or special abilities? (Jessica Jones)

Riflettevo, in questi giorni, su un aspetto particolare di Jessica Jones, la serie su Netflix: il suo rapporto con l’alcool.
Abitudine, vizio, dipendenza deprecabile, certo.
Eppure, al di là dell’aderenza o meno al canone narrativo Marvel, è interessante constatare come una scelta siffatta, che in teoria esporrebbe la produzione di JJ a tutta una serie di critiche, sia stata comunque adottata, meglio confermata come espediente narrativo potentissimo. A partire dalla prima stagione, e che poi viene confermato e rafforzato nella costruzione della protagonista e dei comprimari, nella seconda.

Si soffre della mancanza di un cattivo adeguato, nella seconda stagione?
Probabilmente no. Non per me, almeno, e il perché è presto detto: non guardo più questi prodotti per confermare la mia adesione al canone, qualunque esso sia.
Li guardo da neofita, perché intrinsecamente convinto che un prodotto di qualità possa colpire anche coloro perfettamente a digiuno di questo o quell’universo narrativo.

Jessica Jones nasce coraggiosamente in tempi difficili. Infatti presta il fianco a critiche e immancabili facilonerie.
Ma non è questo il punto.
Questi tempi difficili sono caratterizzati dalla comunicazione globale. Ecco perché mi vedo costretto a aggiustare alcune mie convinzioni relativamente alla capacità di trattare certi argomenti.
Pensavo che non ci potessero essere limiti, agli argomenti e al modo in cui potessero essere svolti.
Narrazione libera, senza responsabilità.
Un coltello diventa un’arma solo se impugnato dalla mano sbagliata, no?
Ecco, non ne sono più tanto convinto.

Se oggi un mio scritto può raggiungere un numero potenzialmente infinito di persone, è sciocco pensare che tutta questa gente condivida medesime convinzioni e cultura. A quel punto diventa estremamente importante pensare a come veicolare il giusto messaggio.
Di più, diventa precisa responsabilità di chi diffonde materiale attraverso i mass-media arricchire il pubblico, spingerlo alla riflessione, senza rinunciare all’intrattenimento.

Parliamo di cose scomode, anche a livello narrativo, quali lo stupro e l’alcolismo.
Jessica Jones è una serie ideata e prodotta da una donna, diretta nella seconda stagione da donne, avente per protagoniste donne, per lo più.
Ora, si può scegliere, com’è stato fatto in Game of Thrones, di mostrare uno stupro per far avanzare una storia, come strumento di una narrativa meccanica, oppure scegliere di non mostrarlo, non apertamente, ma di metterne in scena la devastazione.
E, qui sta la forza di JJ, non è una devastazione chiacchierata: è una serie di fatti.
Tra cui l’alcolismo, che presumibilmente è conseguenza-espressione dei tanti traumi, tra cui lo stupro, subiti dalla protagonista.

Jessica non è che assume spessore per il suo passato travagliato, certo che no, non è che i traumi subiti, e le violenze siano meriti, men che mai colpe. Ma, dal momento che accadono, pare suggerire la pura scelta narrativa, negarli o nasconderli non è giusto. Non è naturale.

Il trauma segna lo spirito ancora più del corpo. E rimane lì, dove ha colpito. E ti cambia.
Ma anziché farcelo vedere – una scelta narrativa pigra, l’ha definita Melissa Rosenberg, la produttrice della serie – noi vediamo Jessica (Krysten Ritter) che ne patisce la presenza attraverso l’alcool, e attraverso tutta una serie di tormenti, blocchi, difficoltà quotidiane, che ne caratterizzano, ormai, il tessuto “normale”. Quello scazzo perenne di JJ, quando ha a che fare con gli altri esseri umani non può, non vuole essere liquidato come un semplice difetto caratteriale, come misantropia: è dolore, né più né meno.
Non espresso attraverso interminabili chiacchiere e sguardi in camera, ma attraverso tutta la fisicità di Krysten Ritter (qualcosa del genere accadeva anche in Breaking Bad, sempre attraverso Krysten e il suo personaggio).
Ecco, una vita normale che normale non può più essere, o che forse lo è ancora, ma senza alcuna ipocrisia.
Il disagio, la forza, il bisogno e la strenua lotta sono tutte rappresentate in quei sorsi ripetuti e inevitabili.

È una dipendenza, certo. È nociva. E, a ben guardare, è proprio questo il cattivo della seconda stagione, la dipendenza.
Ha molteplici forme, se la prende non solo con Jessica, ma con tutti i primari e comprimari, e coi personaggi secondari. Ognuno di loro ne ha una. Non mi prendo la briga di elencarle.
La dipendenza come una forma irrinunciabile a una normalità che non è mai tale, che ci cambia e che ci scava dentro, modificando la nostra percezione.
Il personaggio di Jessica Jones è talmente massacrato dai suoi narratori, da uscirne ogni volta più spesso e forte.

L’importanza del messaggio è non nascondersi dietro a un dito. Mostrare senza parlare, presentare come normalità, quella normalità che indica innanzitutto dignità – che non è mai persa, men che mai nei casi di stupro – tutta una serie di sciagure che, in una società inetta e immatura, sono quasi sempre il prodromo al biasimo sociale.

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