Underground

Il mio William Wilson

E così, ancora una volta, mi è capitato di sentirmi chiedere: “Ma eri tu quello lì?”.
Alla mia faccia sbigottita partono le precisazioni: “Sì, ti ho visto laggiù, a quest’ora”.
Ehm…
Solo che non ero io.
Non ci sono mai stato lì, non a quell’ora.
Era il mio doppio.
Il mio William Wilson.

Questa storia, proprio come nel racconto di Poe, va avanti da almeno una ventina d’anni. Appena finito il liceo, gli anni dell’università.
Rientrato a casa per il fine settimana, vedo mia mamma affacciata alla finestra che si rivolge a mio padre: “Che ci fa Germano laggiù?”
Solo che non ero laggiù.
Ero appena entrato in casa. E a mia mamma per poco non prendeva un colpo.

Ok, c’era il mio doppio davanti al mio ex liceo. Parlottava con un gruppetto di ragazzi. Erano tutti nascosti dalla pensilina dell’istituto. Tutti eccetto lui.
Provai la strana sensazione di stare guardandomi in uno specchio, ma di spalle.
Non durò molto.
Il mio doppio salutò e se ne andò per la sua strada, che fortunatamente non era quella di casa mia. Prese la direzione opposta.
Non ho mai scoperto con chi si stesse intrattenendo. Magari coi miei amici.
Di fatto, qualche tempo dopo, anche loro mi dissero di avermi visto in un certo posto a una certa ora.
Solo che non ero io.

E ancora, una volta ero in macchina con loro, coi miei amici. Ero sul sedile di dietro. E il mio amico, su quello anteriore si volta e mi fa: “Ehi, guardati!”
E mi vidi.
Stessa corporatura. Stessi occhiali. Stesso abbigliamento. Camminavo sul marciapiede e mi facevo i fatti miei.
Strano, pensai. Io guardo me. Ma lui non mi sta guardando.

Mi feci una risata. Sapete, non ci si sta molto a pensare, al proprio doppelganger. Specie se non si conosce la storia.
Si dà una scrollata di spalle e via, a vivere la propria vita.

Tempo dopo lessi William Wilson Di Edgar Allan Poe. E rimasi inquietato da un passaggio particolare: quando il doppio di Wilson rovina a quest’ultimo la partita a carte, il protagonista riceve un mantello, come ultimo congedo.
Solo che quello non era il suo mantello. Il suo ce l’aveva già attorno al braccio.
Quel mantello era identico. Stesso tessuto, stessa marca, stesso odore, stessi difetti.
Immaginai di tornare a casa e trovare i miei abiti sul letto.
Salvo poi scoprire che quelli non erano i miei vestiti, anche essendo… miei.

Quella sensazione di straniamento tipica dell’incontro con noi stessi. Una cosa spiacevole. E spiazzante. Sarebbe come sentirsi violati nell’intimo da se stessi. Una cosa inconcepibile.

Negli anni, le segnalazioni di miei avvistamenti si sono ripetute. Tante che non mi sono messo neanche a contarle.
Fino a oggi.
O meglio, due settimane fa.
Ma ad oggi risale il momento che mi ha dato i brividi.

Due settimane fa, la mia fidanzata riceve delle foto su Wazzapp: sono io.
Stesso abbigliamento.
Stessi occhiali.
Identica corporatura.
Stessa acconciatura.
Stesso colore di capelli.
Nelle foto ero al mare, a farmi le mie ferie. Mi intrattenevo con chissà chi.
Sono stato avvistato dai parenti.

Solo che non ero io.
Ma, per la prima volta, avevo la prova fotografica di me medesimo. Non è più, quindi, solo aleatorietà della percezione soggettiva. È una foto.

E poi, oggi.
Mattina presto, dopo una notte quasi insonne a base di sudore e umido tropicale.
Io e la mia fidanzata andiamo al bar a fare colazione. Dopo, lei va a fare una capatina al negozio di intimo dall’altra parte della strada. Io rientro nel bar per prendere una guantierina di paste.
E il barista, da dietro occhiali a specchio (…) mi fa: “Ma eri tu due ore fa in quest’altro bar?”.
No…
Non ero io.
Era William Wilson.

Ho detto al barista di salutarmelo con affetto. E di dirgli di starmi lontano. Il più possibile.
Si sa mai, coi doppelganger.

*

(Credits: l’immagine in copertina è di Gottfried Helnwein)

Salva

Salva

Kick-ass writer, terrific editor, short-tempered human being. Please, DO hesitate to contact me by phone.