Underground

Grattacieli nel deserto

Ci starebbe, per accompagnare un pezzo come questo, la colonna sonora di High Rise, e magari anche la locandina, che riecheggia di Le Corbusier.
La musica evoca subito una precisione sinfonica, scandita da routine quotidiane. Qualcosa di inutile, e al tempo stesso disumanizzante, quale può essere la vita in un’arcologia, un mega-grattacielo che brulica delle sue migliaia di abitanti, e che è un monumento a se stesso.



Ma non sarebbe abbastanza.
Perché i grattacieli in questione sono vuoti. Arredati, ma vuoti. Privi degli allacci fondamentali: acqua, luce, gas.
Il progetto s’è fermato a metà.
Siamo in Iran, ma potrebbe in effetti essere un luogo qualunque nel mondo. Nel nostro presente.
Il Mehra Mer, a cinquanta chilometri dalla capitale, è un cimitero alle intenzioni.
Il fallimento di una serie di fattori: politica, banche, finanziamenti, persone.
Ma è altamente simbolico del nostro presente.



Le Corbusier, ho citato. Sì, perché Mehra Mer rievoca la stessa precisione disumanizzante della Città radiosa.
Che s’è attirata, fin dal 1930, tutta una serie di critiche da parte di altri architetti.
Non so se la città radiosa dicesse molto della personalità di Le Corbusier, ma di sicuro era – o avrebbe dovuto – essere un’installazione avveniristica, in anticipo sul futuro privo di empatia.
Perché a guardare sia i vecchi progetti che il nuovo Mehra Mer si avverte come la gente sia, de facto, un problema da risolvere.
Matematico, certo.
E il modo di risolverlo sembra essere quello di stiparli all’interno di contenitori.



Sì, subisco il fascino del Brutalismo. Sono uno di quelli che pensa che il cemento armato raggiunga alte vette d’espressione architettonica e artistica, ma qui siamo all’aridità.
Che non è solo desertica, quella è contingente. Siamo pur sempre in Iran. Ma, immaginate di vivere in questi alveari piantati nel nulla. Affacciati sul nulla, o su una seria infinita di caseggiati gemelli, proprio come il vostro.
Sì, state pensando a Vivarium. E vi do ragione. E soprattutto al corto Foxes, che è basato sullo stesso sistema di fallimenti a catena che portano un nuovo quartiere residenziale a diventare un sepolcro.
Non un albero, non uno spazio accogliente, ospitale, tra gli stessi. O almeno, nulla che sia stato ancora progettato, o di cui si siano anche solo gettate le basi. O le fondamenta, in questo caso.



Poi riguardate la locandina di High Rise, e ditemi se il pensiero di arcologie abitative autosufficienti, in cui gente fondamentalmente sgradita al sistema, percepita come un ingombro, non debba più uscire di casa, e debba persino ringraziare che gli sia stato trovato uno spazio per… continuare a esistere (cit.).
Sì, ovviamente sto parlando soprattutto da autore di narrativa.
E ripeto, siamo in Iran, ma potremmo essere ovunque. Non è la prima volta che mi imbatto in mostruosità del genere. Alcune sono sorte proprio nella regione in cui sono nato e ho vissuto per più di trent’anni: è la tipica soluzione proposta dal sistema.
Che non pensa alla vita come a qualcosa di gradevole, ma la tratta con la freddezza dei numeri. Spazi impilati per una quantità di persone ben precisa, e i loro figli che verranno.



E sì, in ogni caso questa distesa di cemento armato su uno scorcio lunare fa vibrare il senso innato della narrativa d’immaginazione. Apocalissi zombie, crisi ambientali, rivoluzioni. Ci si potrebbero ambientare innumerevoli racconti, in questa valle disseminata di palazzoni vuoti. E forse succederà.
Ma è solo per un caso, che quegli stessi edifici non siano stipati di gente.
E se il mondo corrisponde a come lo immaginiamo, se questo è il nostro mondo, o peggio ancora il nostro futuro sovrappopolato, ecco che diventa palese che qualcuno, da qualche parte, ha commesso un errore fatale.
Col nostro consenso firmato.

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