Mi concedo una incursione nel cinema, dopo averlo abbandonato. Un po’ come spiare dal buco della serratura.
Ormai è raro che un prodotto di narrativa contemporaneo arrivi a colpirmi sul serio.
Under the Shadow (di Babak Anvari) c’è riuscito, probabilmente perché corrisponde alla mia idea di narrativa.
Sì, parlo di narrativa e mi guardo bene dal distinguere il genere che è stato inflitto a questa pellicola, perché da sempre sogno che un’opera sia percepita non in quanto esponente di un dato genere, cosa assolutamente riduttiva, ma in quanto tale: opera compiuta che narra (o mostra, o entrambe le cose) una storia. E llo fa con gusto e perizia.
UtS poi arriva a colmare una lacuna storica dalla quale noi occidentali siamo afflitti: la storia recente del Medioriente.
L’Iran è un paese antico, è una cultura antica, e offre orizzonti distopici di grande spessore.
UtS è un prodotto di tale cultura. Ambientato quando l’identità di una nazione, che si espresse attraverso imposizioni e limitazioni di comportamento, specie riguardanti le donne, che ne aveva sotterrata un’altra, forse giustamente considerata aliena a quelle terre, si stava scontrando con l’esigenza della mera sopravvienza.
Una ragione per esistere, per vivere.
Teheran, presa di mira dall’Iraq, che gliel’aveva giurata, promettendo di raderla al suolo, è la capitale di una nazione già ferita, che cerca uno scopo per esistere.
Medesima lotta, nel microcosmo che è un piccolo condominio in quella stessa città, a ancora più in piccolo, in una casa, è quella di Shideh (Narges Rashidi), mamma e moglie, ex-studentessa in Medicina, che di quel nuovo sistema di valori che aderisce a tradizioni millenarie è vittima.
Non può continuare gli studi, non può evolvere. Non nella direzione che aveva scelto.
Il gran rifiuto. Della vita, del destino, del sistema-mondo. È qualcosa alla quale, pur accettandone e dando per scontata la sua esistenza, non siamo preparati. Mai.
Peché siamo esseri limitati.
Eppure accade.
E, di fronte a eventi macroscopici, la nostra volontà può decidere di scontrarsi e uscirne distrutta, o di adattarsi.
UtS è una storia di meta-conflitto. Una matrioska di conflittualità, così come di ambienti.
Il conflitto di Shideh s’allarga alla sua famiglia, alla figlia, non problematica in quanto tale, ma in quanto bambina in un contesto di guerra e cambiamenti culturali, al marito, assente non in quanto elemento disfunzionale, ma perché anche lui travolto dagli eventi esterni.
Conflitto con il piccolo condominio, con l’amministratore che esige l’affitto e la incolpa, in quanto donna, di non essere capace di chiudere bene il portone del garage.
Conflitto, ancora, con la famiglia del marito, che vive fuori Teheran, in un posto sicuro, laddove cedere a questa offerta di asilo corrisponderebbe, ancora una volta, all’ennesimo fallimento di un piano d’azione prestabilito e costantemente frustrato.
In questo contesto di angoscia, rabbia repressa e paura, si colloca l’elemento sovrannaturale, che fa da innesco.
UtS è opera di narrativa complessa e credo sia ingiusto collocarla in un genere, solo perché ci fa comodo.
Il Jinn, creatura della tradizione araba che infesta non tanto i luoghi, ma le vite altrui, può essere visto come materializzazione degli incubi di Shideh, del proprio senso di inadeguatezza – infatti la creatura l’accusa apertamente di essere un’incapace, come donna e come madre – quanto elemento estraneo attirato dalla particolare aura di negatività che impregna l’ambiente.
Laddove, per decenni, ci si è limitati al cinema a far sì che l’agente dell’orrore fosse legato a un oggetto, a un luogo, a una data particolare, e che i protagonisti del dramma fossero tali in quanto capitati lì per caso, ecco che UtS offre un’alternativa: presenta un sistema di energie e valori che viene attivato da una serie di eventi e cerca, proprio come Shideh e Teheran stessa, un nuovo equilibrio.
Il Jinn, secondo la tradizione, è un’entità dotata di intelligenza, non per forza maligna, ma opportunista, che agisce secondo la propria natura, ingannevole e mutevole.
Arriva con un missile, o forse no, forse era già in quella casa, attirata dal rancore che in essa persisteva, che fa da catalizzatore.
Non disturba, l’elemento sovrannaturale, anzi rende compiuto il processo della narrazione, quando, ancora una volta, sul finale, s’allude alla permanenza del malessere, quasi una depressione che attecchische alle coscienze e sedimenta, senza mai essere spazzata via.
Il Jinn sottrae bambola e libro, due oggetti importanti, che identificano figlia e madre, vuol dire che le perseguiterà ancora; eppure, potrebbe trattarsi solo della manifestazione simbolica del rispettivo disagio, al momento della fuga notturna superato, ma non sconfitto.
Da studiare.
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