Quando di un film iniziano a spuntare foto in bianco e nero già a distanza di dieci anni dalla sua pubblicazione vuol dire che è di culto. Dite di no? Sinceramente non so cosa voglia significare. So soltanto che, come sempre con Shyamalan, io ero al cinema a guardarmelo e che, come sempre con Shyamalan, ero circondato in ogni dove da individui borbottanti e sputanti incredulità. “Che film di merda!” mi sembra sia stato il commento più gentile che ho sentito in quella sala rivolto a Unbreakable (2000).
L’altra cosa che ignoro è: perché sempre con Shyamalan? Ce ne sono di registi che meritano improperi ben più pesanti. Ma il caso vuole che debba essere M. Night il bersaglio prediletto dello scetticismo incredulo e consapevole della massa.
Consapevole perché si sa benissimo che tipo di film gira, il nostro Shyamalan. Lo sapete tutti, anche se fate finta di no. Quel cinema fatto di paranormale, di sense-of-wonder, di silente letargia. L’avrò detto già un milione di volte. E per un milione di volte ci siete andati lo stesso al cinema per rompere le palle al sottoscritto con le vostre proteste, sottoscritto che proprio quel cinema vuol vedere.
Comincio a pensare che sia un qualche tipo di maledizione o di contrappasso.
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L’Uomo di Vetro e L’Infrangibile
Elijah Price (Samuel L. Jackson) gestisce una galleria dedicata a presentare il fumetto come forma d’arte e veicolo di comunicazione. Egli è soprannominato l’Uomo di Vetro perché affetto, fin dalla nascita, da un disordine genetico, l’osteogenesi imperfetta, che gli causa un’estrema fragilità delle ossa. Per qualche strano motivo, Elijah è convinto che David Dunn (Bruce Willis), un uomo sopravvissuto ad un disastro ferroviario, costituisca la sua controparte naturale; l’Unbreakable, un uomo che mai viene ferito, né ucciso. Se così fosse, Elijah potrebbe dare un senso alla propria condizione, cagione di innumerevoli sofferenze, trovando un posto per sé stesso a questo mondo e, finalmente, uno scopo.
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Il Cavaliere Errante
Alla sbarra per bissare il successo de “Il Sesto Senso”, Shyamalan scontentò parecchie persone. Neppure io ne rimasi particolarmente colpito. A quel tempo, vittima come molti altri delle distinzioni di genere, mi aspettavo, da un regista che mi aveva elargito bei momenti horror, che me ne fornisse altrettanti e migliori.
In “Unbreakable”, al contrario, a farla da padrone è il minimalismo. Un eroe con una mantella verde impermeabile, che rischia di affogare mentre non sa precisamente quello che si accinge a fare, travolto dagli eventi che credeva di controllare, è una visione iperomantica dell’apprendistato del cavaliere; ma attenzione, visto non in chiave moderna e attualizzata come potrebbe sembrare, bensì come è sempre stato in realtà, senza sovrastrutture derivanti da misticheggianti allucinazioni fantasy. Il cavaliere, quello del mito, non andava in giro in armatura e spada scintillante sul cavallo bianco a far sospirare verginelle affacciate dalle loro torri d’avorio, ma era sporco di sangue, lui e il suo cavallo, e combatteva contro tentazioni di ogni genere e contro i propri affetti. Una volta per tutte: è così che stavano le cose. Ma per quanto esternamente la figura di David Dunn sia ripulita dagli addobbi, cosa che gli fa preferire un poncho verde militare ad un mantello e costume supereroistici, la sua figura resta classica, aderente al mito. David Dunn è puro d’intenti, fedele alla moglie [aiutato in ciò anche dal fato] con la quale è ormai sull’orlo del divorzio e per la quale si è condannato ad un’esistenza di mediocre insoddisfazione. Il cavaliere non gioisce, si sa.
“Unbreakable” è un inno al fumetto, fatto culturale, strumento per tramandare notizie decorate con fronzoli perché “stritolate dalla macchina commerciale”, ma, essenzialmente, diffusore di verità storiche, di fatti. Tolta la patina fantastica, necessaria per rendere il tutto avvincente e remunerativo, restano eroi sporchi, risse brevi e violente e nemici che sono tali perché devono interpretare quel ruolo che la vita ha riservato loro. Scusate se è poco.
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Curiosità
# Le inquadrature angolate del film richiamano quelle vertiginose delle tavole a fumetti.
# L’Uomo di Vetro, Elijah Price, è associato al vetro non soltanto a causa del suo soprannome e della sua malattia; il regista si diverte a “circondarlo” di vetro, a farglielo usare sia indirettamente che direttamente, creando così un legame simbolico tra personaggio ed essenza tipico di molti personaggi dei fumetti : a) appena nato, lo vediamo riflesso in uno specchio; b) da ragazzo, vediamo il suo volto riflesso in un televisore; c) egli lascia il biglietto col quale contatta David Dunn sul parabrezza dell’auto di quest’ultimo; d) il suo bastone da passeggio è fatto di vetro e come la gamba di Elijah si frantuma per permettere a questi di avere conferma dei suoi sospetti su Dunn; f) si vede accanto a lui, in una scena, un numero di “Thor” degli anni ’80 in cui il dio del tuono, che era stato maledetto, veniva colpito da una estrema fragilità ossea, esattamente come Elijah.
# Elijah, nella Bibbia, è colui che sarebbe ritornato sulla Terra prima del Giudizio Finale, prima quindi del Figlio di Davide, il Salvatore.
# David Dunn, il nome del protagonista, è allitterativo, caratteristica comune ai nomi degli eroi dei fumetti: Bruce Banner, Peter Parker, Nathan Never, Dylan Dog, etc…
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L’Antagonista
Minimalismo, certo, ma non a scapito dell’eleganza. Lo sguardo di Shyamalan, come sempre, è prezioso e sobrio, anche quando si poteva ancora dubitare che gli appartenesse sul serio. La macchina da presa è statica, accucciata vicino ai soggetti che riprende. Sta tranquilla a guardarli, proteggendoli nel frattempo. Fa la guardia, mentre David Dunn si libera faticosamente dell’accessorio che è suo figlio (Spencer Treat Clark), accessorio in quanto richiamante il duo adulto/bambino del precedente “Il Sesto Senso”, e si dedica completamente alla sua veglia da supereroe/cavaliere, sotto la supervisione dell’ottimo Samuel Jackson, superiore e vera luce, a dispetto del ruolo affidatogli, del film. Il Cattivo esiste, certo. E spesso è sadico e malvagio. Elijah, tuttavia, è qualcosa di diverso, di alternativo, di nobile, se non nelle sue azioni, almeno nella sua logica. Egli è l’eroe la cui pietas, la devozione verso una causa superiore, lo convince a sobbarcarsi lo sgradevole ruolo che gli è stato affibbiato fin da quando era bambino, quando i suoi amichetti per schernirlo già erano capaci di vedere la sua natura. Per loro Elijah era l’Uomo di Vetro. Il percorso di quest’ultimo è comprensione, sofferenza e accettazione. Cercare il suo opposto per dare un nome a sé stesso. Il male, l’essere un villain spetta a qualcuno. Sempre. Una consapevolezza che può risultare estremamente faticosa da accettare, ma senz’altro necessaria.
Le Storie, senza il Male, morirebbero.
Approfondimenti:
Scheda del Film su IMDb
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