Tucker and Dale vs Evil, film consigliatomi dall’amica Ric (QUI la sua recensione), mai arrivato in Italia se non per vie traverse, o attraverso DVD originali.
Direi capolavoro, nonostante l’happy ending sdolcinato e la facile morale alla base dell’intero film, che si può tradurre in “mai fidarsi delle apparenze”, o “l’apparenza inganna”.
Speciale, però, è il gusto con cui costruisce una serie di luoghi comuni cinematografici, che diventano in primo luogo citazioni per cinefili, smantellandoli, ribaltandone la prospettiva senza rinunciare alle valanghe di sangue che tali spettacoli impongono, mi riferisco agli horror splatter, da La Casa a Non aprite quella Porta, da Venerdì 13 a Le Colline hanno gli occhi a Un tranquillo Week-end di paura.
La formula c’è.
Film da manuale, si direbbe.
Fila che è uno spettacolo da paura.
C’è stato, vent’anni prima, un massacro in un bosco: un gruppo di studenti universitari è stato decimato dai redneck del luogo.
Dopo vent’anni, un nuovo gruppo di studenti si reca in vacanza in quello stesso bosco. E, come allora, ci sono i redneck ad aspettarli.
Ma le cose vanno diversamente.
In queste settimane ho parlato spesso della “morte divertente”.
La “morte divertente” è quella spettacolarizzata al cinema, soprattutto, come in questo caso, in una commedia nera che non risparmia efferatezze di sorta.
La domanda è: quanto può essere giusto divertirsi con la morte?
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Tucker and Dale vs Evil diverte da pazzi. Ma non è poesia sepolcrale, non spinge alla meditazione verso il trapasso, sublima la morte e ci balla insieme. Dirò di più, annoia nelle (per fortuna brevi) sequenze dedicate al dialogo, anche se, come il resto del film, trattasi di satira.
Dà il suo meglio, invece, nelle morti del variegato gruppo di protagonisti, una più spettacolare dell’altra. Abbiamo, tra le altre: impalamenti di vario genere, un tuffo nel trita legname con relativo spruzzo rossastro, amputazioni, un viso rasato con un tosaerba e altre raffinatezze.
Tutto mostrato, senza alcun pudore ipocrita.
Si dovrebbe inorridire. Ci sono degli esseri umani che schiattano come topi. Eppure, si ride.
L’idea, messa in maniera banale, è: non avere il pelo sullo stomaco. O il manico di scopa messo altrove.
Chiaro che questo film non è adatto a un minore. E non è forse neanche educativo, nonostante la morale stucchevole di fondo. Il motivo è lo stesso per il quale risulta essere tanto divertente, scherza con la morte.
E non solo per il trapasso scenico, effettivo, della maggior parte dei suoi protagonisti, ma perché ignora del tutto l’elaborazione del lutto e lo sconvolgimento che la morte crea in chi rimane.
È una commedia demenziale, è obbligatorio, quasi, che il lutto venga ignorato. Altrimenti saremmo in un altro genere di film. E di atmosfere.
Ma non è detto che ogni film debba essere educativo. E, se pure lo sia, non è detto che debba educare basandosi su metodi riconosciuti. I soliti.
Lo spettacolo, l’intrettenimento, consiste nel tenere desta l’attenzione del pubblico, nel solleticare emozioni e istinti, nel far passare un paio d’ore come fossero minuti: il tempo è relativo, lo sappiamo. E questo vale soprattutto quando siamo in presenza di un grande show.
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Il punto è che si dovrebbe riuscire a distinguere la finzione dalla grave realtà. Cosa che sembra scontata, ma che come al solito non lo è. Siamo sette miliardi, cresciuti con educazioni e aspirazioni (e manici di scopa) diversi.
Quentin Tarantino adotta lo stesso principio, e viene bersagliato (oltre che per tutto il resto) soprattutto per la violenza insita nelle sue scene, per la “morte divertente”. Che, secondo i teorici, stimola gli emulatori.
A Eli Craig, regista di questo film, dovrebbero dare il rogo.
Non so, magari è stato bersagliato per le stesse ragioni anche Tucker and Dale.
Sta di fatto che la costruzione del film, basata sulla classicissima commedia degli equivoci, direi quasi plautina, con tanto di agnizione finale e storia d’amore (a lieto fine obbligatorio), il ritmo con cui il sangue (finto) spinge la storia suscitando il paradosso e la risata liberatoria, io li ho trovati perfetti. Ben bilanciati e utilizzati con sapienza. Il rosso è una variazione cromatica che impreziosisce. Tutto qua.
La regia è di Eli Craig, Tucker è Alan Tudyk, rimpianto pilota della Firefly, affiancato da Tyler Labine, Dale, e Katrina Bowden, Allison, la studentessa univeersitaria.
Oltre alla “morte divertente”, l’operazione è satira ad ampio raggio: commedia degli equivoci, dibattito sull’ingannevolezza delle apparenze, presa in giro dei luoghi comuni del cinema dell’orrore, con lo studente ricco e perfettino che esige di fare della sua vita volontà di potenza, la studentessa psicologa che analizza a tavolino una situazione ormai già deragliata nel sangue convinta di poter sanare a parole ciò che ormai non è recuperabile, soprattutto, altro aspetto di cui si è discusso abbondantemente su questo blog, la deformità del male.
Il titolo, quel vs Evil, non è casuale, è un altro segno della cura con cui è stata portata avanti l’operazione. Spesso vediamo, soprattutto nei titoli citati a inizio articolo, l’assassino ritratto con una caratteristica fisica precipua: la deformità.
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Qui l’antagonista diviene deforme, essendo già un perfetto sadico all’interno, modello American Psycho. E lo diviene secondo il classico processo di formazione del cattivo in un film sui supereroi. A differenza dello stereotipo, però, restando fedele alla spettacolarizzazione del mito, non c’è redenzione, non può, non deve esserci. Il male lo si porta addosso, è ben visibile e pur nascondendo traumi, è ineluttabile che debba essere fermato.
Divertiamoci, quindi, persino col sangue. Lo spettacolo esige di rallegrarci anche per questo.
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