Stamattina, anzi, no, da ieri sera sto riflettendo… Conoscendomi sapreste quanto può essere deleterio tutto ciò, per me e anche per gli altri. Blog tuo, regole tue. Blog di qualcun altro… Ed ecco che, intimidito da un territorio estraneo sul quale sono di passaggio e semplice spettatore trasformatosi in attore del momento, tendo ad essere remissivo e diplomatico come non sono mai stato e a fornire pareri pacati che quasi mai corrispondono a ciò che penso davvero. O a deragliare impunemente perché mi piace scrivere.
Io scrivo.
A questo punto il fragore del tuono dovrebbe squarciarvi i timpani.
Sei uno scrittore?
Sì.
Chi l’ha deciso? Te l’ha detto qualcuno? Un esperto?
No.
E allora?
E allora, vaffanculo!
Non sono modesto né diplomatico.
Decisamente no.
Hai studiato per diventare uno scrittore? Hai una vaga idea di cosa sia la letteratura?
Ho studiato tanto, sì, ma non certo per diventare uno scrittore – perché non si può – e sì, ho la mia idea di letteratura che quasi mai corrisponde a quella degli altri.
Questo fa di te un disadattato!
Sì.
Come hai iniziato a scrivere?
La verità, banale: un giorno mi sono alzato dal letto convinto di poterlo fare. Se so parlare, so anche scrivere, pensai. E lì feci anche un patto con me stesso: giurai di liberarmi di ogni scrupolo morale nello scrivere. In breve, o si scrive tutto, ma proprio tutto… oppure non si scrive affatto.
Su questo blog ho introdotto una categoria, L’Attico, principalmente con l’intenzione di poterci ficcare tutta la mia robaccia, in un modo o nell’altro personale, che, altrimenti, difficilmente avrebbe un’esatta collocazione, persino su queste pagine, persino quando tento di scrivere di cinema o di serie televisive. In un mondo così tenacemente innamorato delle categorie, in cui ogni cosa deve stare al suo posto e deve seguire determinate regole, anche il mio letame deve trovare la latrina che gli compete! Chiaro, no?
In realtà, me ne sono sempre fottuto delle categorie e degli schemi in generale e di ciò che ci si aspetta da me, in quanto tale, e, recentemente, in quanto blogger. Nessuno deve scommettere su di me, deve lontanamente sospettare il mio valore, perché nessuno deve vedermi arrivare, devo essere una sorpresa, inatteso. Mi piace la letteratura fantastica, ragion per cui, spesso, ciò che scrivo risente di tale sfumatura. Le mie pagine contengono ciò che si suol definire contaminazione fantastica, elementi sovrannaturali.
L’intenzione è di scrivere romanzi.
Di che genere?
Del genere che piace a me.
Vale a dire?
Nessuno.
In che senso?
Nel senso che la stessa definizione di letteratura di genere è deprecabile ed è stata introdotta, a suo tempo, per moltiplicare le cattedre universitarie.
La vera utopia, la mia, consiste nell’attribuire medesima dignità alle opere di P.K. Dick, J.R.R. Tolkien e a quelle di James Joyce. Sul fatto che possano piacere o meno o che siano tutti e tre abili allo stesso livello, questo è tutto da vedere. Mi servivano tre nomi noti e ho usato quei tre. Personalmente ritengo Joyce e Dick su tutt’altro piano rispetto a Tolkien. Si fa per chiacchierare…
Ma Dick è uno scrittore di genere, per non parlare di Tolkien!
E chi cazzo l’ha deciso?
E perché dovrei conformarmi al parere di costoro?
Perché sono venuti prima ed hanno fatto con la letteratura ciò che si fa con la sabbia da bambini?
Hanno eretto castelli. Tutto qua.
Le categorie sono puttanate.
I generi letterari sono puttanate.
La letteratura è un unico fenomeno arbitrario della condizione umana, diretta conseguenza del linguaggio, altra manifestazione puramente arbitraria.
Ci si dovrebbe rendere conto che, quando si parla, non si fa altro che emettere una sequenza di rumori, suoni se preferite, cui noi, esseri senzienti, siamo soliti attribuire uno specifico significato e un’elevata dignità. Lo scrivere è una conseguenza del parlare. Si scrive perché le parole durino più a lungo nel tempo. Più di noi che le abbiamo pronunciate. E basta. E non esistono leggi che inquadrino questo fenomeno, ma solo consuetudini.
Non c’è una legge (al pari delle leggi della fisica) che mi impone di scrivere “Io sono andato a correre“, al limite, anche la forma “Io ho andato a correre” sarebbe corretta perché, tra la prima e la seconda versione non c’è differenza. Non c’è una legge esatta e immutabile che mi impone di utilizzare il verbo essere in luogo dell’avere. Se lo si fa è, esclusivamente, per consuetudine, non perché sia corretto dal punto di vista scientifico. La consuetudine deriva dall’uso prolungato nel tempo. Per comodità. Per essere compresi e non derisi.
Il mare. Perché lo chiamiamo così? Due sillabe che stanno ad indicare quella massa d’acqua che ricopre il 70% del globo terrestre. Certo, deriva dal latino mare-is. Corretto. Ma, per caso, c’è una legge dietro questo nome? Un qualunque fenomeno che sia stato d’obbligo nel definire la suddetta massa d’acqua mare? No. Si sarebbe potuto chiamare benissimo gelato alla pigna, invece.
Un bel giorno, chissà quando nel passato, un essere umano si è alzato e ha deciso, arbitrariamente, magari dopo un bel bagno, di chiamare tutta quell’acqua salata mare, perché così gli girava. Da allora, il mare è stato il mare, per tutti noi. Per gli stranieri, che non conoscono l’italiano e soprattutto il latino, mare non significa un cazzo.
Se perfino le regole grammaticali sono semplici consuetudini, figuratevi quanto sia effimera la definizione di genere letterario.
Rispettare le regole grammaticali è necessario, siamo d’accordo, se non altro per evitare una babele linguistica. Ma tutto il resto… è altamente opinabile. Non a caso, per comunicare con gli alieni, sulla sonda Galileo, si è utilizzato il linguaggio matematico, immutabile ed esatto.
La gente che vive snocciolando regole e sentenziando sul come si debba scrivere questo e su come debba essere chiamato quest’altro ha davvero dei tarli nel cervello: l’atteggiamento tipico di chi è stato massacrato all’università o nella vita. Siete stati bocciati ad un esame per aver dato una definizione erronea? Il fegato vi si è gonfiato fino a scoppiare per il risentimento? Da quel momento il “modo corretto di dire le cose” è diventata la ragione della vostra esistenza? Non riuscite a scrivere neppure una pagina senza citare fonti e riferimenti a supporto delle vostre opinioni, per la serie Tizio e Caio sostenevano questo e quindi io che sostengo la stessa cosa ho, per forza, ragione? Vi beate della della vostra non illimitata sapienza? – No, no, voi non pretendete di sapere ogni cosa, come credete faccia io, voi conoscete poche cose, ma quelle poche le conoscete BENE, vero? – Siete lettori attenti ed esigenti e ultracritici? Il piacere è tutto mio, siete i benvenuti, qui, sia che siate semplici spettatori che partecipanti, ma questo non vuol dire che debba condividere tutte le vostre stronzate! Perché queste ultime, sapete, hanno un caratteristico odore, esattamente come le mie. Al contrario, se cagaste uova d’oro state pur certi che vi rincorrerei con un secchiello.
Ma se non mi vedrete arrivare col suddetto recipiente tra le mani… allora dovete accettare il fatto di essere capaci esattamente quanto me, di dire o scrivere, soltanto una cosa: la manifestazione della vostra/mia arbitrarietà.
Prima o poi, superati i problemi di software, mi deciderò a pubblicare il diario sul quale sto lavorando da qualche tempo. Il diario di un vampiro.
Banale?
Assolutamente sì. Nulla di più banale di questi tempi. Ma non me ne curo. Voglio farlo lo stesso, perché mi piace, per gratificare me stesso.
C’è un genere letterario particolare cui la forma diaristica appartiene? Non lo so, e non me ne frega un cazzo.
Dal momento che stai scrivendo un diario, sei tenuto a rispettare le norme e le consuetudini che questa forma espressiva prevede?
Forse per qualcuno, sì, ma a me non me ne frega idem come sopra.
Qual è il modo di esprimersi corretto, per un vampiro?
Colto, volgare, o adatto all’epoca in cui vive?
Come si fa ad evitare che un diario, che è qualcosa di strettamente personale rimanga tale e non si trasformi in un mero esercizio linguistico?
Vi libero da un altro dubbio: qualsiasi testo scritto è un esercizio linguistico.
Non esiste il modo giusto e assoluto di scrivere le cose, esiste solo la consuetudine di scriverle in un determinato modo per facilitare la comprensione altrui. Il genere fantasy, o il thriller o la fantascienza devono necessariamente corrispondere a determinate regole per essere buoni libri? No. Non esiste un unico modo di scrivere un romanzo e non esistono norme che, se osservate pedissequamente, garantiscano il buon romanzo.
Semplice, no?
Cosa fa, allora, un buon romanzo?
Uhm… non saprei. Il gusto, per caso?
Ma allora non c’è un valore discriminante che garantisca con assoluta precisione se un’opera d’arte, una qualsiasi, è davvero un capolavoro oppure no!
Proprio così. Si tratta solo di gusto e, a volte, di fortuna.
Se non ci credete e leggendo queste parole resterete scandalizzati e/o offesi e vi verrà la ridarella da compatimento stile ma guarda questo povero stronzo, affari vostri-, io faccio lo stesso con quelli come voi che pensano tutto il contrario di ciò che ho scritto.
Soffro di un deplorevole eccesso di personalità. Riduco tutto ad aria fritta. E’ quello che facciamo tutti ogni volta che apriamo bocca e le diamo fiato. Questo spero sia chiaro.
Chi ti credi di essere?
Io non credo di essere. Io sono. Semplicemente. Che poi dovrebbe essere la differenza tra l’uomo e la capra.
Avrai successo o, partendo da queste basi e da quest’arroganza, fallirai miseramente?
Entrambe le possibilità riguardano solo me.
In fin dei conti non è che ci tenga molto ad essere pubblicato. A diventare un nome. Ad essere ricordato.
Esercito la mia arbitrarietà scrivendo, forse perché non so fare altro. Ed esercito il mio pensiero.
Tutto questo è solo pensiero.
Edit (07/09/09 – 11.57):
l’illustrazione di Bush che vampirizza la Statua della Libertà è di Alex Ross.