Tornando brevemente sul discorso editing…
Spesso mi si domanda: com’è che fai?
Me lo chiedono i clienti. Clienti soddisfatti (per fortuna!).
E io non sempre so rispondere.
Non come vorrebbero (e magari pensano che stia nascondendo i segreti del mestiere, per non farmi rubare il lavoro), non come si confà all’era dell’internet, in cui ogni cosa, ogni mestiere, editing compreso, può essere standardizzato, riassunto in punti salienti e trasmesso ai posteri: un esercito di editor agguerriti, ma che, alla prova dei fatti, poco o nulla sanno di improvvisazione, troppo presi dal ripetere a mente il mantra delle regole del perfetto intervento sul testo.
Ora, lasciando da parte proprio quest’ultima, l’incognita, quel quid in più indefinibile che fa la differenza ed è meglio avere sempre piuttosto che non…
…quando ho iniziato seriamente a pensare di farne un mestiere, di diventare un editor e di farmi pagare per il mio lavoro, mi sono riproposto due clausole fondamentali (sì, me le sono autoimposte, come Rockfeller: meglio essere tiranni di se stessi):
a) la brevità (di cui abbiamo già parlato)
b) il rispetto dello stile dell’autore.
Riguardo la brevità, sì, ne ho già parlato, riassumendo il tutto con “meglio tre parole che cinque”. E mi sono accorto che, là fuori, c’è gente che non capisce, che prende tutto alla lettera, identificandomi con colui che “meglio tre parole” sempre e comunque. Colui che, armato di mannaia, abbrevia il testo, sempre e comunque.
Ovviamente non è così, ma chi ha il tempo e la voglia di smentire o confermare la percezione altrui? Io no.
Dico solo che il punto a) conduce al punto b), immancabilmente.
Rispettare lo stile di un autore vuol dire non imporgli il proprio modo di intendere la scrittura e la narrativa.
Io ho un modo.
Tu ne hai un altro.
E, a dispetto di ciò che sostengono i manuali (sempre lì si torna), non esiste un modo corretto per scrivere una storia.
Esistono le buone storie. E le cattive. Non c’è altro.
Intorno c’è una serie di consuetudini, definite “regole” dai più intransigenti, quelli che altrimenti si sentono scappare il terreno da sotto i piedi.
Io amo la prima persona e la terza limitata, quando narro le mie storie. Amo partire dal dettaglio e costruirci intorno una storia, amo i personaggi secondari e le singole scene. Amo la brevità e la pulizia del linguaggio e non amo particolarmente le digressioni nella mente dei personaggi: in special modo nel mezzo di una scena d’azione.
Se il protagonista è all’inseguimento, o in un combattimento, è davvero poco carino che l’autore mi porti via da lì per dirmi di quella volta che il suddetto s’è fatto la prima comunione e che la sua mamma era tanto carina e commossa. Tra una pallottola e l’altra.
Non me ne frega niente, io voglio vedere il combattimento. Voglio sentire la fatica, il pericolo, non voglio digressioni.
Fosse per me, le digressioni non dovrebbero esistere e dovrebbe valere sempre la regola del qui e ora, a meno che la mente del personaggio non divaghi perché impossibilitata a fare altrimenti…
Questa è, in parte, la mia idea di narrativa.
Che non è la tua.
Però accade che tu vieni da me con una storia da migliorare. Mi assegni un lavoro. E io tirerò fuori, dal tuo testo, il meglio di cui sono capace.
E, se posso, salverò persino la digressione della prima comunione.
Se posso sì. E se, alla fine, quella prima comunione aggiunge ricchezza al testo.
Altrimenti, si va di mannaia.
E qui arriva il bello, ovvero il punto b:
– siete voi che scrivete la storia. Soltanto voi.
Io sono un editor, non un ghostwriter, e, nel rispetto dello stile dell’autore, mi limito, credo il novanta percento delle volte, a togliere il superfluo.
Un esempio concreto, brevissimo:
“Dietro a ogni storia appartenente alle leggende popolari c’è qualcosa di reale” (frase originale)
“Dietro a ogni leggenda popolare c’è qualcosa di reale” (frase editata)
La frase è lì, l’hai scritta tu. Io ho tolto l’inutile. L’ho abbreviata e l’ho resa dinamica.
L’ho anche migliorata?
Secondo me sì.
Secondo te?
La maggior parte dei miei interventi consiste in questo.
Il tuo stile è intatto, se ne sta lì, all’interno di una mole di parole, quasi sempre non necessarie. Io uso solo il setaccio per cavarlo fuori.