Blog Cinema Serie Tv True Detective: le lingue d’asfalto
Serie Tv

True Detective: le lingue d’asfalto

truedetective2C’è una cosa in particolare, di True Detective, che mi ha sempre affascinato: l’ambiente.
Il modo in cui questo partecipa alla storia e alla vita dei personaggi/protagonisti.
Se è vero che noi siamo, in larga parte, il risultato dell’ambiente che ci circonda, è inevitabile considerare quest’ultimo come il quinto protagonista della seconda stagione di True Detective.

In particolare, e con piacere, non solo la zona metropolitana di Los Angeles, una delle megalopoli con la maggiore estensione territoriale del mondo (che ha inglobato altre città), ma anche le colline che la circondano, aride e brulle, via via mangiate dal deserto del Nevada, che pare voglia sconfinare per divorarsi tutto, e dagli incendi più o meno spontanei.
Un paesaggio lunare, che risulta ancor più efficace durante il giorno, sotto il sole battente, rispetto alla visione liquida della città, regalateci in un panorama latteo dalla terrazza di qualche villa lussuriosa abbarbicata accanto alle grandi lettere della scritta HOLLYWOOD.
È una Los Angeles metropolitana, inquinata, altamente industrializzata e, naturalmente, corrotta, quella che ci viene (ri)presentata.
Arida e bellissima, in ogni scorcio di un presente più cyberpunk di quanto siamo disposti ad ammettere. Lo sprawl esiste, e noi ci siamo dentro.
Stiamo parlando di un bacino di oltre quindici milioni di persone, una nazione urbanizzata dove si parlano lingue diverse (almeno tre ufficiali, inglese, spagnolo e coreano) e di tanti nuclei suburbani dai nomi pittoreschi, derivati dalle tante dominazioni di questa striscia di terra così pericolosa, bellissima e contesa: la California.

Quattro protagonisti, quest’anno, tre poliziotti e un gangster che s’è messo in testa di fare affari puliti, più o meno.
Tre poliziotti che provengono da realtà disparate, da quei piccoli nuclei urbani in perenne conflitto di giurisdizione, tra vicesceriffi, detective e un agente motorizzato della California Highway Patrol (sì, un CHiP, avete capito bene, con lo stemma stellato e la scritta EUREKA!) è ben rappresentata una goccia di quella umanità losangelina.
Se è vero che i protagonisti sono il risultato di questo ambiente, abbiamo a che fare con persone altamente problematiche e perciò narrativamente interessanti.
Tutta la perizia narrativa di Nic Pizzolatto è all’opera, evidente a chi di narrazione se ne intende, con un intreccio/puzzle che ci racconta i protagonisti attraverso brandelli di informazioni, dialoghi smozzicati, scene di vita quotidiana e di piccole e grandi miserie.

Colin Farrell è il Detective Ray Velcoro, da Vinci (Da fuck is Vinci? A city, supposedly). Uno che si porta addosso una vagonata di traumi, e a cui non dispiace crearne di nuovi, in terzi soggetti, anche minorenni. Una concezione di giiustizia disillusa e una vita che si trascina senza scopo apparente tranne che piccole gioie meschine.
Rachel McAdams è Ani Bezzerides, del dipartimento di un qualche Sceriffo, ama il gioco e l’alcool, e ha una sorella che si dedica all’arte nel mondo del porno.
Taylor Kitsch è Paul Woodrugh, il CHiP di cui sopra, con la pelle a grattugia per chissà quale motivo e una disfunzione erettile compensata con le pillole blu. Cerca la morte e la vita correndo sulle highway, come uscito da Mad Max Fury Road.
Poliziotti devastati che operano, probabilmente, per un fine che possa riscattarli.
C’è un cadavere a cui sono stati sciolti gli occhi, sistemato compostamente su una panchina, in uno spiazzo lungo una delle highway. E il cadavere del socio d’affari di Frank Semyon (Vince Vaughn).

E questo è quanto, per l’episodio pilota.
Ah, no, dimenticavo la sigla.
Che è Nevermind, una canzone di Leonard Cohen. Che al primo ascolto lascia perplessi, ma già al secondo si fa meno surreale e più opportuna, specie leggendo il testo.
La diversità rispetto alla prima stagione è palese è ricercata, innanzitutto nella gamma di colori, tanto pallida, verdastra e ancestrale era la Louisiana di Rust e Marty e del Re in Giallo, tanto ocra ipercromato e solcato di grigio delle lingue d’asfalto è la presente, con quel bubbone da milioni di anime che è LA.
Los Angeles è il frutto non di un passato atavico, della storia della Terra, di ere geologiche e divinità che hanno combattuto e si sono fatte strada nel cuore degli uomini, Los Angeles è il dono dell’umanità, della gaia scienza, della volontà di potenza. Un canto ateo, probabilmente, che rende ancor più futile e terreno qualsiasi crimine.

Exit mobile version