Era nell’aria, e ho deciso di farlo oggi: parliamo di True Detective. La seconda stagione. Un unico articolo, non ne verranno altri ché, credo, siano non necessari. Non avrò altro da aggiungere su questa serie, almeno fino alla terza (se ci sarà).
Di una cosa sono soddisfatto, aver centrato uno degli aspetti portanti di questa serie: lo spazio concesso all’ambiente quale quinto protagonista.
Non che ci volesse Einstein, se il titolo campeggia su un incrocio di arterie stradali, che servono alla circolazione di anime e, allo stesso tempo, comunicano un’atmosfera di civilizzazione soffocante, che s’è spinta troppo oltre.
La seconda stagione ha dei problemi.
Lascia, profondo, un senso di insoddisfazione insieme a piccoli sprazzi d’esaltazione. Niente che possa minacciare la carriera di Nic Pizzolatto, il quale ha commesso dei peccati, ma che non gli valgono la dannazione eterna.
La diagnosi è che la televisione, stavolta, abbia preteso del suo.
E il suo della televisione, lo sappiamo, è sintetizzabile in porcheria ordinata, confezionata e costituita per piacere al largo pubblico.
Più il pubblico s’allarga, lo sapete, più pretende comprensione.
E sono dolori per tutti.
La seconda stagione doveva bissare (e anche superare) il successo della prima, che già possedeva un nucleo di fan agguerriti.
Onde soddisfare questa necessità economica, si deve guardare altrove, includendo e anche indirizzando il pubblico.
Ma facciamo un passo indietro.
A ben guardare, Pizzolatto non ha sbagliato nulla.
La stagione è coerente con ciò che vuole raccontare/mostrare. Indulge anche troppo spesso in complicazioni adorabili, nella volontà di tacere, a quello stesso pubblico, alcuni passaggi esplicativi fondamentali che avrebbero potuto metterlo a proprio agio.
La storia, in fin dei conti, è semplice: tre poliziotti indagano su un omicidio, scoprendo una cupola di corruzione in quel di Los Angeles. Uno dei tre è vicino a un gangster wannabe imprenditore.
Proprio così, un poliziesco. Puro e semplice. Come quelli di Starsky e Hutch.
E, alla fatidica domanda, perché proprio quei quattro? Cos’hanno in comune con l’indagine?
Ray Velcoro (Colin Farrell), Ani Bezzerides (Rachel McAdams), Paul Woodrugh (Taylor Kitsch), Frank Semyon (Vince Vaughn) hanno poco o nulla a che vedere con l’investigazione. Col caso in sé, e coi suoi criminali protagonisti.
Ci lavorano perché sono pagati per farlo.
Volendo cercar metafore, i loro destini si sono incrociati su una delle highway del titolo.
Fatalità e vita ordinaria applicate. Quasi una tesi universitaria sul realismo.
Una mattina andiamo al lavoro e ci troviamo implicati in un omicidio.
Sono cose che succedono.
Specie a dei poliziotti.
La cura di Pizzolatto è quindi sulla costruzione dei singoli protagonisti.
E qui c’è il dilemma, nella scelta narrativa portata avanti.
Si parla di realtà, di realismo o di narrazione?
Perché le cose possono coesistere, è vero, ma quando si mettono a tacere le altre due per circa sette puntate, per poi richiamarle in vita tutte e tre nell’ultima, il risultato è il finale della seconda stagione.
Le vite dei protagonisti, dicevo.
Sono tutti esseri umani disastrati. Il che li rende piuttosto comuni. Hanno problemi familiari. Tutti vivono il rapporto coi figli (presenti, futuri, mai arrivati) in maniera conflittuale.
E anche quello dei figli è un altro dei temi portanti.
Esseri umani disastrati, protagonisti di una fiction.
Non devono esserci simpatici. non più. Gli Anni Cinquanta li abbiamo lasciati indietro da un pezzo (ahimé). I protagonisti non devono necessariamente essere simboli o meccanismi del nucleo narrativo, ma semplici attori.
Quindi la scelta consapevole di Pizzolatto è di descriverceli così, i suoi protagonisti, crudi, veri, non esattamente positivi e nemmeno particolarmente simpatici, per di più, ci aggiungerei, addirittura moralisti e ingenui.
Dettaglio, questo, persino in contraddizione con quanto affermato dalla frase “we get the world we deserve”, sotto il titolo. O forse a completamento, perché per una Ani Bezzerides che s’inventa paladina delle prostitute oppresse e strafatte di orge e coca, c’è una di queste che la manda affanculo perché rea di averle rovinato una vita comoda e ricca di agi.
Quindi abbiamo a che fare con personaggi disfunzionali, ricchi e sfaccettati (anche se otto puntate sono state poche per completarli a dovere) che vivono la loro vita, esercitano la libertà personale fino a quando i criminali su cui indagano non esercitano la propria, la libertà di salvarsi e incastrare (o ammazzare) gli sbirri.
Uno scontro di libertà.
Perfetto.
Ma il rischio, nel presentarci una trama siffatta è che il pubblico, che è stato educato per sessant’anni alla narrazione classica, dove ogni cosa esige uno scopo, invece, trovi questo balenare di vite reali noioso e inconcludente. Esattamente come la maggior parte delle vite là fuori.
È come guardare attraverso uno specchio della mediocrità umana: quattro esseri umani fallimentari e vittime del mondo che rispecchiano i miliardi di esseri umani fallimentari e vittime del mondo.
Però è una scelta, ripeto, coerente. Quasi suicida. E l’ha fatta Nic Pizzolatto.
E ammetto che, in un’altalena di emotività, dal bigio al compiaciuto, la seconda stagione mi è piaciuta. Nulla, soprattutto per i temi trattati, sulla quale spendere più parole del necessario. Una stagione ambiziosa che ha scricchiolato.
Un esperimento, però, fatto in TV.
E qui arriviamo al finale. Dove la realtà dei mediocri, portata avanti come un vessillo sul campo di battaglia da Pizzolatto per sette episodi, si piega alla narrazione.
Avrebbe dovuto essere, credo, la summa emotiva: la tragedia.
C’è qualcosa di profondamente perverso nei dialoghi. Scrivere frasi come “Woodrugh stava per avere un bambino!” (ma va?), “Era il migliore tra noi” (che è da solo il trionfo dello stereotipo) e farli pronunciare a due futuri galeotti, più che ex-poliziotti, dopo un accoppiamento notturno che è valvola di sfogo ai loro destini orribili, è perversione.
È televisione fatta e finita. È tutto ciò che Pizzolatto aveva evitato fino a quel momento: è lo spiegone moralistico.
Tardivo e inutile.
È il tentativo di accalappiare il largo pubblico, quello dei semplici.
Perché, a quel punto, quello che si doveva capire s’è capito da un pezzo. I buoni e i cattivi non esistono, in luogo di tante sfumature di grigio. Esistono i potenti e gli impotenti.
E va bene così.
Inutile farsi venire i rimorsi di coscienza.
E invece no.
E se per un attimo si esulta nell’assalto di Velcoro e Semyon alla baita, nel quale i mafiosi russi vengono crivellati di colpi, e ci si illude in un destino di fuga, ma tutto sommato vincente, si sceglie invece di far vincere quello stesso destino infame che ha da sempre gravato sulle vite reali di questi quattro sfigati. E che grava, in fondo, sulla maggior parte della gente.
In che modo?
– Inducendoli a compiere scelte stupide.
Non c’è altro modo per definire la fine di Velcoro (che ok, è andato a trovare il figlio nonostante il senso di ragno frizzasse impazzito dal pericolo; ha scoperto un trasmettitore sull’auto, ma da poliziotto, avrebbe potuto rubarne altre dieci, e seminare gli inseguitori. Oppure evitare di farsi ammazzare nel bosco, semplicemente andando in luoghi affollati). È solo che doveva sacrificarsi, per la paura di crearsi una vita nuova, e magari anche felice, cedendo tutto, compreso se stesso, ai vecchi fallimenti.
La fine di un vinto.
Ci può stare, ma magari ogni tanto, vedere un figlio di puttana sorridente che la sfanga è pure simpatico.
– Facendo vincere il deus ex-machina vendicativo.
I messicani per Frank Semyon, che pure vengono provocati, perché lui è un figo tutto d’un pezzo, e crepa nel deserto non a causa del vestito, ma perché chiede un passaggio. (E vabbé che Frank ci ha pure ammorbato con le scenette familiari tra lui e la moglie, Jordan [Kelly Reilly], una che c’ha la voce di Sandra Milo, ma che non si capisce perché sussurra sempre).
– Facendoli ammazzare dopo una sparatoria sotterranea bellissima.
La pratica Woodrugh, già archiviata al settimo episodio. Perché Woorugh c’aveva scritto morte in fronte, fin dall’inizio.
– E facendo sorridere il fato solo a Ani, che completa, insieme a Jordan, la suddetta metafora dei figli. Il cerchio si chiude quando entrambe allevano il figlio di Velcoro, che si scopre è sempre stato un papà.
I padri muoiono tutti, le madri portano avanti le cose. I destini. Le vendette di altre anime mediocri.
Forse.
Alla prossima.