Aspettando Tron Legacy (2010), che ho deciso di vedere al cinema, e soprattutto Quorra, QUI in altissima risoluzione, è bene esaminare il film del 1982, se è vero che il primo, come da titolo, è eredità del lavoro di Steven Lisberger, regista.
Non vedevo Tron da, vediamo un po’, almeno 25 anni. Sono in molti a temere queste escursioni nel passato profondo.
Il motivo alla base, quello fondamentale, è sempre uno: la paura di disilludersi.
Ovvero, scoprire che le emozioni e la meraviglia provate da bambino, di fronte a quel mondo nero come lo spazio cosmico, solcato da scie di luci azzurre e rosse, dove guerrieri luminescenti si affrontavano inseguendosi su moto di energia, siano per l’appunto esclusive dell’infanzia e che lì siano rimaste. Custodite dalla memoria e dal tempo che, nel frattempo, è corso via.
Ma il nostro ricordo è rimasto congelato a quell’età.
Poi schiacciamo di nuovo PLAY, e la magia finisce.
O, almeno, questo è ciò che accade di solito.
Questa volta, invece, le cose sono andate diversamente. Meno peggio di come mi aspettassi.
Il ricordo nebuloso equivale a zero storia (l’intreccio, diciamoci la verità, non interessa a nessuno) e tante luci colorate. Un capo ineffabile con vocione da cattivo, sgherri colorati di rosso, sadici e stronzi al punto giusto, e una manciata di ribelli che vogliono ristabilire la libertà dalle ceneri di una dittatura.
In pratica, Guerre Stellari in salsa disneyana.
Oggi, il fattore zero-storia è rimasto tutto, le luci colorate risultano un po’ sbiadite, ma il divertimento e lo stupore per quello che rimane, indubbiamente, un tentativo ambizioso di cinematografia sci-fi, è forte come allora.
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Virtuale
Attenzione, Tron ha, nel 2010, tutti i difetti che gli potete imputare. A cominciare dal gap tecnologico che, nel frattempo venutosi a colmare, ci ha viziato a furia di schermi blu e verdi, i luoghi dove tutto è possibile. Effetti speciali che, adesso, risultano per ciò che sono: trucchetti forografici, intervenuti a colorare riprese in bianco e nero, e tecnica rotoscopica, ossia ricalco manuale di soggetti umani in movimento. In alcune scene è fin troppo visibile, in altre la spuntano il nero, colore dominante del mondo di Tron, e le luci sgargianti. E di fatto ci si dimentica di avere a che fare con un prodotto Disney, di scarsissimo impatto al botteghino, tra l’altro, e che si salvò grazie ai videogiochi che fecero da traino.
Spassose, ma anche plausibili con il senno di poi, le proteste degli allora disegnatori della Disney, che entrarono in sciopero a più riprese perché temevano, a ragione, che l’utilizzo del computer nel cinema li avrebbe privati del mestiere. Lungimiranti, non c’è che dire.
La trama, al contrario, cavalcava l’onda di temi che più classici non si può: la ribellione dell’intelligenza artificiale.
Ricordate che due anni dopo Tron, nel 1984, sarebbe stata la volta di Terminator e di Arnold Schwarzenegger, prodotto in serie dal supercomputer ribelle Skynet.
A essere nuova, in Tron, è la tentata raffigurazione della realtà virtuale, qui infinitesimale. Il tutto si svolge, infatti, all’interno dei circuiti del sistema gestionale computerizzato della ENCOM, una ditta sviluppatrice di software, videogiochi compresi.
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Diritto D’Autore
Ecco, una cosa che sfuggì a suo tempo, da bambino, sono le mosse da cui prende piede la storia. Il leit motiv è uno e uno solo, anche questo lungimirante, considerato lo sviluppo futuro: il copyright.
Il Diritto d’Autore. Il protagonista Kevin Flynn (Jeff Bridges) lamenta il furto di copyright nella creazione di una serie di videogiochi di immenso successo, da parte di uno suo collega, Ed Dillinger, che se ne è attribuito illecitamente la paternità e che, proprio grazie alle vendite di quelli, è riuscito a scalare i vertici aziendali mettendosi a capo della ENCOM.
Proprio sul nascere della realtà virtuale, della rete telematica, è abbastanza strano associarvi problemi legali relativi alla tutela del copyright. Strano, ma, come ho detto, profetico.
Il contrasto che spingerà Flynn, nel frattempo ridotto a gestore di una sala giochi, a tentare di riappropriarsi di ciò che ha creato e delle ricchezze da esso derivate e sottrattegli indebitamente, è alla base dell’agire di tutti i protagonisti, compreso il Master Control Program, l’intelligenza artificiale che, si suppone divenuta autocosciente, mira al controllo della rete globale, assimilando a sé ogni programma esistente.
Infarinatura di politica reaganiana nell’intenzione dell’MCP di assumere la gestione sia del Pentagono che del Cremlino, istituzioni ree, secondo la CPU, di inefficienza gestionale.
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Scacchi
E così, Dillinger diviene un pupazzo, anzi, poco più di una scusa, dal momento che tutto il resto del film si concentra sulla lotta tra Flynn e due suoi colleghi nel tentativo di forzare i blocchi informatici posti in essere da MCP, per autodifesa. Flynn vuole trovare tracce del furto d’idea subito anni prima, il suo amico e collega Alan vuole riappropriarsi del programma al quale sta lavorando, denominato TRON, un programma di sicurezza indipendente da MCP, e Lora, fidanzata di Alan ed ex di Flynn, vuole anche lei riprendere gli esperimenti ai quali si dedica, miranti alla disgregazione della materia organica. Robetta semplice, semplice, in effetti…
Dei tre creativi, solo Flynn è destinato a varcare la soglia tra mondo reale e virtuale, perché colpito da MCP, che su di lui ha deviato il raggio disgregatore dell’esperimento di Lora.
Flynn si ritrova nel tessuto informatico, vera realtà alternativa, della ENCOM, un reame diviso in settori, nel quale i programmi, vere identità ed esseri senzienti, svolgono i compiti per i quali sono stati creati, adorando, nel frattempo, i propri inventori come sorta di esseri superiori, divinità chiamate i Creativi.
L’MCP, opportunamente derivato da un semplicissimo simulatore di scacchi, cosa che gli dona un’intelligenza logica con la quale è impossibile scendere a patti, vuole rendersi indipendente, sia nel mondo reale, acquisendo, come abbiamo visto, il controllo sulle due superpotenze USA e URSS, sia in quello virtuale, sostituendosi ai Creativi nel ruolo di divinità.
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Autocoscienza
Una trama estremamente ambiziosa, almeno nelle intenzioni, per quanto complessa e di difficile fruibilità, specie per un film dedicato a un pubblico di bambini. Difficile anche se si considera la scarsa dimestichezza generale relativa a concetti, quali l’Intelligenza Artificiale e la Realtà Virtuale, che oggi paiono scontati.
Intreccio che, in ogni caso, non è approfondito più di tanto, per dare spazio al lato spettacolare e alle tecniche degli effetti speciali. Niente di rivoluzionario dal punto di vista tecnico, come abbiamo visto, soprattutto se confrontato con Guerre Stellari, che al suo esordio, nel 1977, ben cinque anni prima, aveva mostrato molto di più e molto meglio, ma a suo modo unico e inimitabile per stile.
Indimenticabile la sequenza dell’inseguimento motorizzato che riproduceva un videogioco che di lì a poco avrebbe conosciuto un successo mondiale. E stupefacente la volontà di attribuire ad avatar umani, l’essenza di programmi virtuali che, non solo all’apparenza, mostrano, persino nelle forma più elementari, come il bit (un punto luminoso che, essendo solo positivo e negativo, si esprime solo in modo affermativo e negativo), sintomi tipici di autocoscienza.
Impossibile non vederci echi di ciò che poi diventerà Matrix.
Dategli un’altra possibilità, probabilmente lo troverete ancora accattivante dopo tutto questo tempo.
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