Chiamiamole rose rosse, perché intinte nel sangue.
Piccola premessa, nei giorni scorsi ho riletto/rivisto tre opere appartenenti alla mia giovinezza: Devilman, di Go Nagai (1972), Piramide di Paura, di Barry Levinson (1985) e Arma Letale 2, di Richard Donner (1989).
Magnifici. Soprattutto il manga di Nagai, per diverse ragioni.
Il tratto, che a noi contemporanei può apparire sciatto, ma che ha segnato uno spartiacque verso il fumetto moderno, la crudezza delle immagini e la morte di Miki, la ragazza amata da Akira, il suo legame col mondo. Pensare che tutto ciò sia nato negli anni ’70, dà l’idea dell’esatta portata di questo fumetto, maltrattato nella versione animata dal solito moralismo bacchettone.
Ma era un fumetto. E dai fumetti, di solito, ci si aspettava/aspetta l’intrattenimento per bambini. Rassicurante, in qualche modo.
E a questo punto io rilancio, forse proprio a causa degli anni ’70, della loro violenza intrinseca, foderata col pacifismo, che noi abbiamo potuto leggere Devilman così com’è stato concepito. Forse è stato concepito proprio a causa di quel periodo storico. Un po’ come il nulla odierno, che riflette il vuoto che stiamo vivendo, mascherato da figata assoluta. Sempre vuoto resta.
Ma torniamo ai tre titoli e a quello di questo post.
Devilman, Piramide di Paura e Arma Letale contengono tre morti, violente, sofferte e inattese. Le morti delle donne amate. Che quando arrivano, spezzano il cuore e sconvolgono.
***
La fine di Miki è la più cruenta, quella che a distanza di anni ancora non dimentichi, che ogni volta che la rivedi, anche nell’OAV, ti devasta.
In Amon: Devilman Apocalypse (2000), terzo e ultimo OAV tratto dal manga, la scena è riproposta con un tratto antico, le proporzioni della casa in cui Miki si muove sono alterate, corridoi lunghissimi che danno il senso di alienazione e straniamento. C’è quel silenzio opprimente che avvolge tutta la casa, ormai piena zeppa di criminali a caccia di demoni.
Si spera che la cosa non possa mai avvenire, ma quando si scorge il dettaglio della testa del fratellino, si comprende che non c’è più scampo. Akira è lontano ed è “solo” un demone. Nulla può impedire che la follia abbia il suo corso.
La rivediamo, Miki, in cima a un palo, come trofeo, in una scena che fa del delirio la catarsi del demone, la sofferenza inespressa, il dolore immenso.
***
Abbiamo Rika (Patsy Kensit), segretaria di un criminale che paga il suo amore per il poliziotto Riggs. Lei scompare, per riapparire sott’acqua. C’è caduto anche Riggs, che la scorge mentre tenta di liberarsi. E capisce che quella bellezza immobile è quella del non ritorno.
Una svolta cruda, violenta di un film tutto azione, caposaldo degli anni 80. Eppure, la vita criminale è costellata dal sangue. Riggs è un personaggio frustrato, al limite della follia. La morte di Rika è l’ulteriore scossa di una sceneggiatura spietata. Il colpo che lo abbatterà o lo scuoterà in positivo. Quello che deve far scatenare la furia vendicativa.
E infine Elizabeth (Sophie Ward), in Piramide di Paura. Interesse romantico di Holmes. Fino a quel punto il film, nonostante le morti creative e fantasiose, causate dal veleno in cui sono intinte le frecce scagliate con le cerbottane del Rametep, si è dimostrato rispettoso dell’adolescenza, divertente, intrigante e fantastico. Ma anche Elizabeth muore, nei ghiacci, perché finita in mezzo alle brame del perfido Rathe. La crescita di Holmes è quasi un’iniziazione. La sua carriera di studente universitario, sua e quella di Watson, sono comunque finite, come la loro vecchia vita. Il film, da essere un’avventura brillante, cambia il tono nella drammaticità dell’evento ineluttabile.
***
Tutte e tre sono momenti magnifici, dal punto di vista narrativo. Tutte insopportabili e crudeli. Terribili. Ma la narrazione esige, per essere superba, anche questo tipo di svolte. Persino, come accade in Piramide di Paura, in un prodotto che si sapeva essere destinato a un pubblico giovane.
Questo mi porta a riflettere sul male edulcorato, sulla morte in sordina o perfino negata, della narrazione attuale. Mi viene in mente il vergognoso finale de La Guerra dei Mondi di Spielberg, quando il figlio creduto morto, che doveva essere morto, riappare magicamente, senza alcuna logica, per… come dire… non fare torto a nessuno.
Ecco, il coraggio di rappresentare eventi atroci, ma mai gratuiti, cosa che, per dire, apparteneva anche a Lady Oscar, sapete di cosa sto parlando, è andato via via scomparendo, di pari passo con l’acuita sensibilità del pubblico, e la possibilità da parte di quest’ultimo, specie negli States, di muovere causa agli autori per un nonnulla che possa sconvolgere i loro piccoli cervellini.
Questo e poi tanti altri discorsi sulla formazione educativa. Una serie di castelli in aria che tendono a preservare i futuri adulti da un mondo che è violento, ma che è bene non darlo a vedere. Una sorta di vittorianesimo del Bene che vuole nascondere il male, a danno, senza fare trattati di psicologia spiccia, soprattutto della bontà delle opere di intrattenimento.
Opere che si reggono, per diventare magnifiche e epiche, sul dolore, sul dramma.
Mi sono scoperto appassionato del genere drammatico, che da ragazzo odiavo. Detesto le battute di spirito per ammazzare la tensione. Mi mancano, più di tutto, questi momenti crudeli, che facevano soffrire lo spettatore, il me stesso di decenni fa. Ma che avevano un senso, facevano crescere e maturare.
Tre rose rosse… indimenticabili.