E ci risiamo: cinema spagnolo.
Che qui è diventato una categoria a parte. Che invidio tantissimo, perché loro ne sono capaci, e noi, che abitiamo a uno sputo, no.
Perché da noi c’è il problema secolare del chi si identifica?
Se non sapete cosa sia il Chi si Identifica? è bene fare un piccolo ripasso, prima di esaminare Tres Dias.
In parole povere, nelle Camere di Consiglio dei Potenti Produttori Italiani, o CCPPI, mentre si vagliano le nuove proposte, sapete, quelle che poi diventeranno film e telefilm, spettacolo, c’è sempre uno o più sordidi elementi, ancorati al passato realista del nostro paese (ma de che?), i quali, in presenza di una sceneggiatura che si stacchi poco poco dalla verosimiglianza e presenti elementi fantastici, sollevano la fatidica e lapidaria questione: Chi si identifica?
E lo fanno con voce chioccia. Affossando qualsiasi velleità.
E così, mentre noi italiani siamo costretti a sorbirci malavitosi che parlano in dialetto meridionale, preti investigatori, quindicenni, figli di genitori divorziati e afflitti da crisi di mezza età, che tubano e/o si drogano con grave dramma familiare e altre e spaventevoli puttanate, gli spagnoli, o meglio F. Javier Gutierrez (regista) e Juan Velarde (sceneggiatore) mettono in scena la fine del mondo.
Così, perché loro sono spagnoli e tra loro non ci sono quegli stronzi del chi si identifica. O ce ne sono di meno e messi in posizione di non nuocere.
Beati voi, laggiù in Spagna. Vi invidio tantissimo. Non sapete che grande dono avete.
***
Che a dirla tutta, il film non è che sia questo gran capolavoro. Si lascia guardare, ha qualche spunto pregevole e qualche forzatura di troppo.
In più, la pretesa di innestare, come si fa con gli alberi, un thriller negli ultimi giorni del pianeta Terra, ché un asteroide ci sta per investire e in Spagna non ci sono mica gli ammerigani che salvano tutti andandosi a suicidare con l’astronave contro la roccia che ci annienterà.
L’idea è l’asteroide colpisce la Terra, e noi vi mostriamo l’evento in piccolo, vissuto da una famiglia allargata, mamma (che è anche nonna), figlio (che è anche zio) e nipotini assortiti.
Ora, perché mi piace il cinema spagnolo, perché, anziché un belloccio come Colin Farrell, tutto figo e truccato, mi presenta un protagonista che è un po’ anche il tipico italiano, barba dei tre giorni, sudato e canotta sporca. Tanto è la fine del mondo, che me frega a me di lavarmi?
Giusto, no?
Giustissimo.
E poi, l’isteria di massa. La consapevolezza che tutto è finito, coscienza che si accompagna all’incredulità. Ancora più giusto.
Perché, pensateci un attimo: voi ci credereste davvero a un annuncio del genere?
Diciamo che una parte di voi lo farebbe, ma un’altra piccolissima parte conserverebbe la speranza che alla fine sia tutta una balla, nonostante comincino a spuntare aurore boreali sul Mediterraneo.
***
Scelta stilistica interessante è quella scenografica. Il tutto è ambientato intorno alla fine degli anni ’70, prima della diffusione delle tv a colori.
Tale data non è esplicitata, giusto per soddisfare gli amanti degli spiegoni, ma solo suggerita. Come a dire, le cose stanno così, questi c’hanno i televisori in bianco e nero e le musicassette, e niente cellulari. E voi dovete farvene una ragione.
E io li adoro per questo.
Perché non è necessario sapere che giorno e che anno sia. Non serve a niente. È evidente che non trattasi del nostro tempo, ma va bene così: questione di stile.
E se l’innesto di cui ho parlato prima è una forzatura, esso serve però a far dimenticare per un attimo la fine di tutto, ti catapulta in un altro film con tale normalità che ci si domanda se, alla fine, non sarà tutto un bluff.
E sono sensazioni piacevoli.
L’asteroide intanto s’avvicina, con la sua magnifica scia, e…
Guardatelo, va.
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