La violenza è sciocca, soprattutto. Tipica delle menti deboli. Poi è brutale, raccapricciante, terribile, quello che volete, ma soprattutto è sciocca.
The Woman, di McKee e anche di Ketchum. Da anni diffido dei titoli brevi; un sostantivo, magari, solo uno, e riesce a mettere paura. Poi li adotto anche io, perché nella loro semplicità dicono tutto. È chiaro fin dal titolo che questa Donna non è come le altre, che c’è da scavare in territori desueti, che disgustano, per conoscerne la storia. E, forse la grafica graffiata, si avverte il presagio che questa gita non sarà priva di ferite.
Pochi conoscono il piacere di avvicinarsi a un film senza averne letto nulla. S’è sentito dire, s’è accennato… parole che echeggiavano, brutalità, stupro. Cose che non si vedevano dagli anni ’70. Non so, non è mai stato il mio cinema, e non so dirvi neppure se sia il caso di farlo, questo cinema. Eppure, se ben fatto, apre gli occhi come pochi.
Pollyanna McIntosh (la Donna), già alla prima inquadratura, selvaggia tra i lupi, quando ringhia, dà i brividi. E questo ti precipita in un film di un’altra dimensione, uno di quelli che funziona, fatto apposta per accecarti, mostrando quel che deve, senza prenderti in giro col moralismo, la piaga del nostro presente.
Mostrare, ah ah ah, mi viene da ridere. Ai film dovrebbe riuscire naturale, questa parola. Ma pochi ci riescono davvero. Questo sì, senza spiegare nulla, senza stupide voci fuoricampo, senza scritte in sovrimpressione, senza dialoghi superflui. E lo fa rappresentando fatti che, magari, visti vent’anni fa, sarebbero risultati folli, ma che, dopo le peripezie di biondi teutonici degli ultimi anni, a base di cantine e incesti, bah, risultano essere di tragica attualità.
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Più che la banalità del male, che da sempre ho trovato rasente il cliché, questa è la normalità. E credetemi, scriverlo mi fa male.
La Donna, quindi, spaventa, perché selvaggia. Che sia lercia e feroce, come qualsiasi animale in trappola, puro istinto e nessun imbarazzo è conseguenza, come avrebbe detto un noto filosofo di fine ottocento, pazzo. E quella della McIntosh, lo concedo, è una raffigurazione forte, per non dire altro, che qualcuno potrebbe faticare a guardare, così, legata e impotente; indomabile, per quanto la fame e la debolezza, infine, abbiano ragione anche di lei.
Insopportabile poi la scena della “doccia”. Ma inutile farvi spoiler. Guardatelo e capirete, oppure statene lontani. Inutile tentare di spiegare. In questa c’è tutto, abuso, sorda violenza, stupidità, sopruso, follia. E badate che, al contrario che nel resto del film, non viene mostrato quasi nulla, basta il viso distorto dal dolore della Donna. Basta quello.
Quello, e l’altro sorridente di Chris Cleek (Sean Bridgers), la controparte. Il padre amorevole e fuori di testa. Il fatto che sia un uomo di legge, in realtà, non costituisce il supposto contrasto, ma scivola via. Stranezze del mondo attuale, non meraviglia affatto che un uomo che si suppone integerrimo, celi dentro di sé tali bassezze. Anche stavolta, è la normalità. E più vado avanti a scrivere e più mi rendo conto di quanto questo film, pur con la sua vendetta, il riscatto che è anche fuga, insomma, con ciò che lo deve rendere una storia di “fantasia”, una fiction, un romanzo che deve vendere, sia specchio di certi microcosmi fatti di violenze quotidiane, taciute e ignorate. Aberrante.
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[contiene anticipazioni]
La famiglia di Chris, moglie, figlia maggiore, figlio e sorellina costituisce la parte finale del microcosmo. Società aliena, pur essendo umana. Padre misogino, ma lo si sa alla fine. Bastano poche inquadrature, tuttavia, più che uno schiaffo improvviso assestato per mettere a tacere un piccolo dubbio su ciò che si sta compiendo in quella casa. Uno schiaffo che lacera. Poche inquadrature per capire subito che la famiglia perfetta, con la casa perfetta, i figli ubbidienti e la mogliettina docile, è insieme vittima e complice. Per paura e per un sentimento distorto che si crede essere amore, ma è più una dipendenza.
E tuttavia si è arrivati al capolinea. La Donna è l’elemento estraneo che percuote l’equilibrio del sistema chiuso, la famiglia di Chris, con la sua femminilità. Un’altra donna, Genevieve Raton (Carlee Baker), causa il crollo psichico dell’uomo. E un’altra ancora, Peg (Lauren Ashley Carter), la figlia, ne provoca la distruzione che coincide con la liberazione per gli unici innocenti del gruppo.
Una chiusura del cerchio che si fa perfetta con la rivelazione del mistero dei cani. Perfezione di una narrazione solida e degna chiusura, con l’inaspettato. La creatura c’è, lo sappiamo, è nascosta. Aspetta a mostrarsi fino all’ultimo istante.
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Il finale, dicevo, restituisce al fittizio una storia che altrimenti è dietro l’angolo, e continua a terrorizzare. Un peccato per il film stesso, da un certo punto di vista. Dietro, nella nostra coscienza, le foto sorridenti, al telegiornale, del vecchio austriaco in vacanza ai Caraibi, e dei suoi dieci figli nati da incesti, chiusi in cantina. Vendetta e musica. Vendetta che non guarda all’età, importante e stolida, ma attesa. Anche perché in certi occhi, benché giovani, non c’è ombra di pentimento alcuno. Direi quasi uno scontro di nature opposte: quella selvaggia della Donna e quelle costruite in anni e anni di deliri, dall’Uomo (da un certo tipo d’uomo, per nostra fortuna).
In questo periodo non vado d’accordo con certa musica sparata a palla in scene che, per la loro stessa intensità, non ne hanno bisogno alcuno. Infatti anche questa musica l’ho trovata sgradevole, rumorosa e sostanzialmente inutile. Per certe cose sembra essere meglio il silenzio. Fa pensare.
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