Si avvicina la stagione estiva. Tempo, lo sapete, di film a budget ridotto, veloci e disimpegnati.
The Tunnel è australiano. Vecchia formula, invisa a molti per questioni di mera antipatia: il mockumentary.
Due telecamere, una a colori e l’altra infrarossi, quattro attori e un set claustrofobico.
Il film è tutto qui. Non ha pretese di essere altro e, avete ragione, sa di già visto. Pure troppo.
Ma la formula funziona? Uhm… non saprei. Ma prima di parlarne vorrei fare una riflessione.
Cosa occorre per fare un film così? Neanche pochi soldi, come forse iniziate a sospettare: servono 135.000 dollari australiani. E un’idea che è un canovaccio, quasi un motivo universale. Niente di trascendentale, quindi, o di geniale.
La domanda che ne scaturisce è: perché all’estero sì e da noi no?
E ancora, un prodotto del genere, in Italia, avrebbe davvero degli spettatori? Una fetta di pubblico che esuli da questa confortevole nicchia di nerd presente qui in rete?
Oppure si è talmente assuefatti ai carabinieri, ai preti investigatori e agli psico-drammi familiari che ormai la battaglia che vorrebbe il fantastico essere preso sul serio anche in queste lande è persa ancora prima di cominciare?
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Il tunnel svolge il ruolo fondamentale. Un gigantesco insieme di tunnel, a dire il vero, percorsi ferroviari abbandonati sotto Sidney dove, durante dei lavori tesi a sfruttare delle falde acquifere si dice si siano verificate delle sparizioni. Incidenti misteriosi, in primis, e rapimenti tra i reietti, quegli homeless che si adattano a una vita sotterranea, lontani dalla luce del sole, in gallerie che non interessano a nessuno.
Un team di giornalisti si cala nel complesso e testimonia con le riprese che i tunnel sono dimora anche di qualcos’altro.
Ora, inutile insistere di più sulla trama. Avete già compreso il tipo di film.
Il pregio, al di là delle facili meccaniche è il set.
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In tutta sincerità, non ho idea di quanto sia grande il complesso utilizzato. La magia delle inquadrature da angolature diverse potrebbe far risultare smisurato qualcosa che è in realtà molto limitato, ma l’illusione funziona benissimo e i vecchi corridoi, lerci, sommersi di rifuti, con vernice scrostata, illuminati dalle torce e dalle telecamere fanno il loro lavoro: sono ciechi e opprimenti e sfumano l’audio col giusto ritorno, quello degli spazi chiusi, che contribuisce al realismo.
Ma c’è un però bello grosso. Inspiegabilmente s’è fatto ricorso alla classica scelta ammazza-tensione quando s’è deciso di optare per la formula del finto reportage, con tanto di intervista ai sopravvissuti, che si alterna a momenti del presunto mockumentary.
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In questo modo si sa già chi sopravvive. La suspense va a farsi un giro nel tunnel e muore lì dov’è. Scelta inspiegabile, oserei dire dilettantesca. Per non parlare dell’immenso fastidio che si prova all’interruzione frequente dell’azione con inutili intermezzi atti a spiegare l’accaduto.
Per concludere, resta intatto, almeno per me, il fascino dell’infrarosso. E già vi sento borbottare. Ma, ehi, l’originalità è un fattore essenziale che non faccio mistero di perseguire, ma la sua mancanza non è la fine del mondo. Ragion per cui non fate troppo i paraculi. Se proprio lo volete sapere, non so cosa darei per avere l’opportunità di girare o partecipare a una roba così. Familiare e stereotipata quanto volete, ma divertente.
Menzione d’onore, infine, per quella cosa che infesta i tunnel. Apparizione breve, da vera guest star del budget ridotto, ma efficace.
Una guardatina, in queste serate bollenti, gliela si può pur dare.
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