The Reef va a fare il paio (che detto così pare anche brutto) con Black Water (2007). Andrew Traucki alla regia, uno che ama l’Australia, evidentemente.
Dicono che quest’ultima sia il continente più pericoloso del mondo. E posso anche crederci. Nel primo capitolo c’erano i coccodrilli, in questo gli squali. Gli animali non sono cattivi, ma vivono secondo natura, lezione su cui sono basati entrambi i film. Però, a differenza di molti che prediligono il primo capitolo e che giudicano questo una riproposizione dei medesimi temi, con qualche carenza di stile, io preferisco The Reef. Sembra opera più matura, infatti, svincolata da quell’apparente sadismo che, vuoi o non vuoi, sembrava caratterizzare l’alligatore. Il bello è che te ne accorgi guardando gli squali, che l’alligatore ha più personalità.
Discorso strano, lo so, sul quale torneremo a breve.
Motivo principale che fa pendere la bilancia verso questo film è il mare. Lo conosco, lo frequento da quando ero bambino, ci pesco, ci nuoto e mi immergo. E, credetemi, fa paura.
Il mare spaventa come poche altre cose al mondo. E spaventa già quando è tutto tranquillo e l’acqua è limpida, tanto da riflettere il cielo. E mentre sei lì che galleggi, e fuori c’è solo la tua testa, il tuo corpo se ne sta sotto. E tu non vedi un accidente.
Indossi la maschera, quindi, ed è anche peggio, perché, a una trentina di metri, ti sembra di vedere tutto e niente. Eppure, si sa che il Mediterraneo non è il Pacifico, ma fa paura lo stesso. Direi che il mare è Maestro d’Angoscia. Il sentimento del possibile.
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E un incontro ravvicinato con uno squalo, l’ho fatto anch’io. Proprio così. Avevo quattordici anni e lo squalo era una verdesca di circa tre metri. Niente di ché, non ebbi neanche il tempo di spaventarmi che già il bestione s’era allontanato, del tutto disinteressato. Cosa rara, trovarsene uno a una decina di metri di distanza. Non così raro, invece, uscirne illesi. Però, ecco, è una cosa che ti si fissa nella testa. E da quel momento, guardi il mare, da sopra e da sotto, e cerchi quell’unica forma, affusolata, quella pinna dorsale. E la paura non ti lascia mai del tutto.
Ebbene, queste sensazioni le ho ritrovate tutte in questo film. Per questo lo reputo davvero ben fatto.
La trama è incidentale, infatti parte da una barca a vela che si ribalta. Situazione estrema, si deve scegliere se tentare di ripercorrere a nuoto le decine di chilometri che separano dall’isoletta scelta per trascorrere un romantico weekend, oppure morire in tre o quattro giorni, sullo scafo rovesciato, per disidratazione.
Il cast, cinque attori, tre uomini e due donne. Persone comuni, più che personaggi tipo, per questo gradevoli, anche per il fatto che pochissimo spazio è lasciato alla vita quotidiana, fatta di crisi coniugali, speranze, piccoli litigi, etc, e tutto il resto del film, che comunque dura circa ottanta minuti, si trascorre in acqua, alternando momenti di distensione, utilissimi in circostanze come quelle, a quella che possiamo definire, ancor più che in Black Water, la natura.
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A dire il vero, non brilla proprio tutto. Già dalle prime inquadrature le dinamiche del piccolo gruppo di protagonisti sono chiare. Il punto è che tali dinamiche sono solo decorative, quindi non infastidiscono, essendo evidentemente accessorie e partecipi a creare quel minimo di background necessario a giustificare le scelte che i nostri devono affrontare.
Tutt’altro aspetto è invece capire chi di loro sopravviverà e chi morirà. Certi il velo oscuro calato sul viso ce l’hanno fin dall’inizio, mentre di altri, appena li vedete arrivare già lo sapete, su di loro il sole continuerà a sorgere e a tramontare. Non so, saranno i discorsi o la quantità di inquadrature dedicate a uno anziché all’altro, ma è fin troppo chiaro chi sarà solo carne da macello.
Altro discorso sono gli squali. Veri, ripresi nel loro habitat e (credo) ritoccati quanto basta quando si tratta di farli interagire (una sola sequenza ben evidente, a dire il vero), coi naufraghi.
Gli squali, uno squalo bianco, più una serie di pinne e movimenti sotto il pelo dell’acqua, sono superiori al coccodrillo di Black Water per una sola ragione: come ho già avuto modo di accennare, non hanno personalità. E questo, mentre in molti altri campi è un punto debole (personality goes a long way), contribuisce a renderli credibli, splendidi, naturali e letali. Il primo piano sull’occhio dell’alligatore, al contrario, è già una personificazione della creatura, come l’occhio nero di Bruce ne Lo Squalo. Significativo, infatti, il non soffermarsi mai in primi piani dei pesci, che continuano a essere sfuggenti fino all’ultima inquadratura.
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Menzione particolare per le sequenze del rovesciamento della barca e della seguente esplorazione dell’abitacolo, sommerso, alla ricerca di viveri, equipaggiamento e strumenti di segnalazione. Si sa che non ci possono essere sorprese là sotto: è un film realistico, non un b-movie. E ciò nonostante, il senso di tensione che Traucki riesce a creare è efficacissimo, alternando riprese subacquee, che attutiscono l’audio, ad affannose emersioni. Basta una piccola scossa, la barca che ondeggia, un rumore improvviso… e si è là sotto insieme a loro…
O forse è una cosa solo mia, e di chi il mare lo vive.
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