Il regista è Ti West, classe 1980, che si permette di fare foto del genere e passarla liscia.
Sembra stia dicendo giochiamo al cinema.
E, ok, ha quattro anni meno di me. E la cosa brucia. Perché rispetto alla cecità che ho trovato in rete, appartenente per lo più ai critici di lingua inglese, la messinscena di House of the Devil è superba. E mi riferisco a tutto il blocco.
Blocco che, per l’occasione, strizzando l’occhio all’home-video anni ’80, è stato distribuito in VHS. Una special edition, tanto per gradire. Cult collection per veri nerd assetati d’antiquariato giovane.
Perché è vero, gli anni ’80 sono dietro l’angolo, col 16 mm e i walkman con cuffiette, ma sembrano distare già un secolo o due, talmente tanta è la materia fecale scorsa in sala e fuori in questi ultimi due decenni.
E ve lo concedo, il titolo è da b-movie o giù di lì. Ammazza-suspense, almeno in teoria.
Ma le sorprese arrivano fin dalla prima inquadratura, su piastrelle bianche e mobili giallo acido di una cucina, la cui casa, vista dall’esterno riprende il color limone stinto. E la telecamera indugia a poco a poco sulle spalle della protagonista, che pare stia per svelare un massacro e invece niente: scena quotidiana di una studentessa che vuole affittare una casa e si guarda intorno. Eppure basta questo a creare tensione. C’è qualcun altro, oggi, che crea tensione inquadrando una cucina gialla?
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Se bazzicate da queste parti ormai dovreste saperlo, detesto qualunque discussione associata al genere, che sia cinematografico o letterario. Il genere è indice di chiusura mentale. Poco importa se questa definizione vi fa scalpitare e se, al contrario, ne siete alfieri e cultori. È ora di finirla di barricarsi dietro i suoi sbiaditi confini. Se un’opera è valida, è valida in modo universale e non solo secondo certi ragionamenti o angolature.
The House of the Devil, al di là della ricercata similitudine con un modo di fare cinema old fashion, è opera valida, non mero esercizio di stile. E poco importa se non soddisfa i faciloni alla ricerca dello splatter estremo e dei capezzoli duri come chiodi, e gratuiti. Qui non se ne trovano, eppure non si riesce ugualmente a staccare gli occhi da un film dove, in tutta sincerità, non accade (quasi) nulla.
Detta così, sembra un preludio a una catastrofe, ma niente è più inesatto. Mi riallaccio all’articolo precedente e al riferimento all’atmosfera.
Creare l’atmosfera, far dimenticare che si ha a che fare nientemeno che con Cain (Tom Noonan) di RoboCop, che la memoria vuole intrappolato in un cyborg e strafatto di nuke, e che qui se ne va in giro col bastone a fare il vecchio ricco e strano, far dimenticare che è un film girato l’altro anno con attori che sono giovani proprio adesso; e, al tempo stesso, far ricordare altri film ben precisi e riuscire, con tutto ciò, godibile, non è questione di mera aderenza al genere.
È questione di cinema.
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La casa del titolo è importante? Credo, ma non fondamentale. Almeno non negli esterni. E trattasi di esterni efficaci. Un’architettura magica, con colori tendenti al rosso, che ricordano, insieme a inquadrature di rubinetti e acqua scrosciante che precipita giù nel tubo, un ex-maestro italiano e certe sue ossessioni.
I passaggi iniziali, dedicati al campus universitario, sanno di L’Esorcista (1973); fotografia fredda, non solo a causa della stagione ivi ritratta; squarci di edifici bianchi e marroni, gravidi d’attesa.
Eppure, mi sembra che il debito maggiore questa pellicola l’abbia con Black Christmas (1974) e i suoi dettagli di legno lucido e caldo, i tappeti dei corridoi, la luce ocra delle abat-jour e la stessa protagonista che si muove come drogata d’angoscia, scrutando, secondo l’ossessione stolida e futile, il piano superiore dal quale provengono rumori sinistri.
Un film che si dissolve in angoli bui dove sembra di intuire qualunque cosa, oggetti nascosti, disegni strani; e su tutto la sagoma femminile della protagonista, Samantha, che s’aggira con un coltello in mano, vittima di suggestione. E chi non lo sarebbe in una casa vuota e piena zeppa di porte?
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Figure femminili, personaggi che vengono fuori dal video pur pronunciando una manciata di battute a testa. Greta Gerwig (Megan) profetessa di pizza ai peperoni e bicchieroni di Coca (rigorosamente eighties), che chiacchiera in un diner, si lecca le dita e veste una felpa grigio-blu, sulla quale pende una collanina. Siede sul sofà, mangia cioccolatini, e spicca. E uno se la ricorda quando parla, e come sorride e come recita. E si spera di rivederla presto.
E c’è Jocelin Donahue (Samantha). E qui, poche storie, si rafforza l’idea di averla già vista, questa donna. Somiglia a Margot Kidder (Black Christmas), veste un camicione di flanella e un paio di jeans e ascolta il walkman, lasciandosi ricoprire di sangue come Carrie, dalla testa ai piedi; ma prima se ne va a spasso nella casa dove fa la babysitter introducendoci a stanze riccamente arredate e scarsamente illuminate, con un cesso dalla porta a vetri, che già l’idea di passarci dentro un quarto d’ora ti fa star male: luogo ideale, per essere accoppati.
Eppure, si vede poco, in questo film, pochissimo. Si sentono rumori di porte che si chiudono, di assi percorse da passi pesanti, fino al climax sovrannaturale e non, come da attesa sapiente costruita dal titolo che, a dire il vero, nulla aggiunge, anzi sembra sottrarre qualcosa.
Film che solo i più sensibili capiscono, e di sicuro una gioia per gli occhi, nonostante i flash che illuminano il male che, se restato invisibile, avrebbe fatto molta più paura.
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