Ancora una volta, con The Fighter, per la regia di David O. Russell, il pugilato si mescola all’ambizione e al desiderio di dar vita a un’opera superiore alla media e, soprattutto, con problemi di budget. Pochi soldi, relativamente: 25.000.000 di dollari.
Non una superproduzione. E neppure una cifra con la quale è pensabile scritturare Mark Wahlberg e Christian Bale, oggi.
Sta di fatto che il primo, non appena letto lo script, nel 2005, ha iniziato ad allenarsi tutti i giorni, come fosse un pugile, per essere pronto non appena le case di produzione, dissipati i dubbi, si fossero decise a dare il via alle riprese; mentre il secondo, Bale, s’è accontentato di 250.000 dollari, al di là delle potenziali pretese da lanciatissima star. Pare addirittura che Wahlberg abbia percepito poco o nulla.
Insomma, un film fatto con la pancia. In culo al marketing e ai dubbi dei cosiddetti esperti.
Tentennamenti strani, per giunta, dal momento che l’intreccio, tratto da una storia vera, si innesta sull’ennesima variante di quella che, dai tempi di Rocky, forse anche da prima, è stata definita la trama perfetta.
The Fighter è un film ambientato nel mondo della boxe. Non occorre dire altro.
Avete già intuito quello che succederà nel corso delle quasi due ore, vero?
È un capolavoro? Uhm… direi di no. Poteva essere migliore, ma la vita e i fatti sono questi, e s’è deciso di non romanzare. Tanto di cappello.
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Dicky & Micky
[c’è qualche spoiler]
Anni ’90. Micky Ward (Mark Wahlberg) e Dicky Eklund (Christian Bale) sono fratellastri. Entrambi pugili. Il primo sulla trentina, aspetta ancora il match che possa lanciarlo. Il secondo ha avuto la sua occasione quattordici anni prima, combattendo contro Sugar Ray Leonard, mandandolo a tappeto, ma perdendo ai punti. Ora è un tossico che si fa di crack e che, quando si ridesta, oppure quando lo vanno a prendere con la forza, si ricorda che c’è un pugile, suo fratello, da allenare.
La gestione familiare e fallimentare della carriera di Ward sta portando quest’ultimo alla rovina.
Eklund, inoltre, non perde occasione per mettersi nei casini. Un giornalista della HBO gli sta sempre intorno per girare un documentario sulla sua vita, così dice, mentre in realtà vuole filmare solo la sua pietosa condizione di cocainomane.
Al culmine della sfortuna, Dicky finisce in carcere e Micky al tappeto per l’ennesima volta. E qui, di solito, ci si rialza.
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Al Tappeto
Ogni film sul pugilato presuppone una sonora batosta. I pugili, nella fiction, amano buscarle per poi prendersi la rivincita su avversari che, di contro, non hanno mai conosciuto umiliazioni e sconfitte. Sembra quasi che non aver assaggiato la polvere, quella in cui solo la vita riesce a buttarti, sia ragione d’esclusione dal buon soggetto cinematografico.
Il bello è che la cosa funziona. Il film tiene incollati, pur essendo sempre lo stesso film.
L’etica del gladiatore, schiavo di sé stesso, costretto a combattere perché non può più fare altro, è classica.
Il pugile viene dalla strada, dalla miseria, combatte con rabbia. Quella stessa rabbia che, fino al grande incontro, egli ha rivolto contro di sé rovinandosi l’esistenza.
Ok, è tutto qui. Ma non ci si stanca mai di vedere una storia così.
Grandi interpreti. Il bello è che non spicca Wahlberg che, direi, nonostante si sia calato nella parte con allenamenti e tutto il resto, si limita a fare il suo lavoro. A farla da padrone, ancora una volta, è il perdente più grande. La pecora nera, il figliol prodigo. Insomma, quello che cade all’inferno e poi risorge: Christian Bale.
Dimagrito per l’occasione, come sa fare di solito. Non ridotto pelle e ossa come ne L’Uomo senza Sonno, ma abbastanza per mettere in mostra zigomi preoccupanti e spina dorsale. In pratica è ridotto la metà di com’era ne Il Cavaliere Oscuro.
Dopotutto, pochi come lui riescono a calarsi fisicamente nel personaggio. Dicky Eklund si fa di crack e la sua sofferenza è rappresentata dal fisico di Bale, messo così mae che pare possa rompersi.
Bale cresce. Anzi, direi che è già cresciuto. Ormai è un attore con le palle.
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Boxe
Poi ci sono i sobborghi di Lowell, la cittadina d’origine dei fratelli pugili. Grigiastra anche quando è sotto il sole. Piena di angoli nascosti in cui gettare via la propria esistenza e colma di gente che si lascia vivere aspettando un riscatto sociale che non arriverà mai, eccetto, come abbiamo visto, per quelli che combattono. Usare le mani è uno dei pochi mezzi a disposizione, oltre che uno dei più fragili.
Storia ambientata negli anni novanta. Finzione, questa, rafforzata dalla scelta saggia di impiegare per alcune delle riprese, tra cui il documentario dedicato a Eklund, telecamere dell’epoca che assicurano una ripresa sgranata quanto basta. Decisione meno apprezzabile durante la gestione degli incontri, a mio avviso fin troppo realistici.
E infine, tocco di classe, una visione disincantata del mondo della boxe. Quello che conoscono tutti, e che tutti fanno finta di non vedere. Quello che va dietro ai soldi, tantissimi, che rovesciano la fortuna degli atleti da un incontro all’altro. Quello dei match combinati. Attenzione, non necessariamente truccati, no, ma studiati a tavolino perché un pugile con le giuste doti possa spiccare il volo e beccarsi infine la sua agognata fetta di torta. Insomma, dopo la visione di questo film, si rafforza l’idea che nulla, proprio nulla nella boxe sia casuale, a parte qualche guizzo non previsto; magari quello di un pugile dato per spacciato che riesce, con un solo pugno ben assestato, a riscattarsi.
Intorno al ring rumoreggia una folla inferocita, che ha scommesso, che è lì per vedere il sangue. Nel ring, un minuto ogni tre, compaiono le ragazze segna-round, tra fischi e cadute inciampando tra le corde. Il pugile è all’angolo, il suo secondo gli deterge il sudore e gli tampona i tagli. Non è uno sport per signorine, ma neppure un grandissimo spettacolo come si crede. Ma al cinema funziona sempre.
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