Si parla, tanto per cambiare, di zombie apocalypse. Lo so, anche voi l’attendete con ansia, l’anno prossimo. Ma fino ad allora ci contentiamo di guardarla al cinema, non potendola vivere. Questo film l’ho visto grazie alla segnalazione di un amico. Tu sai chi sei.
In realtà, ero da un bel pezzo dietro a The Dead, probabilmente dal 2009, fin da quando si sparse la voce dell’ennesima variante a tema zombie, con una particolarità che avrebbe potuto fare la differenza: il continente nero.
L’Africa, insieme caldissima e gelida, dove il sole tramonta in fretta, dove i morti camminano silenziosi nella savana. Lenti, caracollanti, romeriani.
Il debito verso Romero, quello buono, è evidente. Fin troppo.
Ma non perdiamoci d’animo. C’è tanta robaccia lì fuori. E i fratelli Ford, registi, hanno gusti raffinati, fin troppo. E, per quanto ho visto, ahimé, poche palle. Ma su questo ci ritorniamo sul finale.
Si inizia in pieno outbreak, scelta saggia. I motivi che fanno resuscitare i morti, quali che siano, radiazioni, un virus spaziale, un’aranciata (cit.) non interessano più. Interessa che ci siano loro, gli zombie, e la messinscena. Le potenzialità di questo canovaccio, l’abbiamo visto nei mesi passati, sono infinite; si può ottenere molto. E soprattutto dare molto, in termini di poetica della morte. O della vita.
Scena iniziale che si rifà, però, non già a Romero, ma a Mad Max: l’eroe solitario nel deserto, che passa accanto agli zombie, perché sono lenti, imbacuccato come un Tuareg.
Il primo zombie che ci viene mostrato è stupendo, provvisto di frattura scomposta alla gamba destra. Stessa gamba sulla quale si ostina a camminare, indifferente al dolore.
Il nostro eroe incappucciato, però, lo ignora. Preferisce sprecare munizioni solo sugli zombie che intende, dopo, depredare. Sempre che sia il caso.
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L’Africa è magica. È suoni e colori, come viene detto nelle pubblicità. I morti viventi, lividi e puzzolenti, con occhi bianchi, barcollano su terra rossa, tra vegetazione rigogliosa e alberi dai tronchi larghi e nodosi e chioma a ombrello. Esistono muovendosi stupidi tra capanne di fango, in un posto che è miseria umana. Col contagio, la miseria africana diviene esiziale, definitiva, vera apocalisse.
Protagonisti del film due uomini, un bianco e un nero, che si salvano a vicenda, lungo un tragitto e un obiettivo comune, raggiungere il nord, dove, si dice, ci sia un luogo sicuro. Un campanello d’allarme lungo la via dello stereotipo, non trovate? Eppure, quel che conta è il viaggio. E il piacere di vedere miseri villaggi, che a stento possono definirsi tali, infestati dai morti. Questi sono silenziosi e caparbi, attirati dai rumori, dalla vita stessa. Mordono e mangiano, producendosi in efferatezze prelibate.
Daniel, il nero, è un soldato che ha disertato per ritrovare il figlio, superstite del villaggio dove invece sua moglie ha conosciuto una doppia fine, premature entrambe.
Brian è il bianco, ufficiale e meccanico. È in Africa e non corrisponde a nessuno dei due tipi di uomini bianchi che l’Africa non la lasciano respirare, dandosi battaglia a vicenda: i soldati, che vengono per distruggere e i medici, che vengono per salvare.
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Battuta efficace, quella precedente, che mostra tutta la contraddizione della dominazione occidentale, la coscienza sporca. The Dead è come questa battuta, bello, bellissimo, capace di momenti poetici come pochi, ma anche brutto, perso dietro sterili citazioni romeriane (sempre lui) che, arrivati a questo punto, è bene risparmiarsi, oppure reinventarsi e non proporre in copia carbone e, soprattutto, vittima di tanti, troppi moralismi. Entrambi gli aspetti, ahimé, ne minano seriamente la resa.
Un po’ monotoni anche i paesaggi e le situazioni. Non che in Africa ci si aspetti di trovare estrema varietà di ambiente, ma neanche solo e soltanto un tipo. E… dove sono gli animali feroci? Leoni, iene… I morti, dicevamo. Sono splendidi, ben truccati e, in più di qualche occasione regalano momenti riusciti. Niente di particolamente sconvolgente, ma quanto meno ben realizzato, con relativo campionario di schizzi di sangue e budella assortite.
Romero (il suo genio) è dietro quelle mani che spuntano attraverso assi di legno di una porta sbarrata. Una porta dietro la quale sono stati rinchiusi i morti. Ecco il punto, Romero lo faceva nel ’78. I fratelli Ford nel 2010. Di acqua ne è trascorsa parecchia, è vero. Però l’immagine che resta, insieme al grattacielo che si spegne a poco a poco, è sempre di George.
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Poetica e cliché. C’è una frase in particolare, pronunciata da Brian mentre è accampato nella savana insieme a Daniel, una frase efficacissima che è riflessione e commiato, quello della civiltà che sta andando via, confusa, persa dietro mostri cannibali: “Comincia a fare freddo”. Riferito al freddo reale, che i due avvertono, sì, ma che spazia per anticipare un pensiero che assilla entrambi, ovvero fin dove si sia spinta l’infezione.
Altro momento romeriano, e perciò debole, quello dell’attimo di lucidità. Il protagonista, giunto in un luogo che si reputa sicuro, riprende fiato e, per la prima volta, riflette su ciò che sta avvenendo: punizione divina? La Natura che ristabilisce l’equilibrio? Chissà… Per fortuna il vecchio saggio non risponde dicendo che non c’è più posto all’inferno, altrimenti…
Finale che appiattisce quasi del tutto i momenti validi, che pure esistono: messo su in fretta, senza riflettere e, m’è parso, con pochi soldi. Sciatto, mentre per tutto il resto del film è stato accurato, il ritratto delle scene d’azione, sfumate e affidate a un effetto rallenty penoso, per non parlare poi del trionfo del moralismo ravvisabile nell’ultimissima inquadratura.
E quindi l’estetica, un’estetica povera e ricercata è valore aggiunto, unica virtù di questo film che, nonostante tutto, non riesce ad annoiare. Ma questa è la magia della zombie apocalyspe, si sa.
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