Subito una curiosità. La Ø del titolo, la cui pronuncia è simile ad una U chiusa, è una lettera usata negli alfabeti scandinavi, per la precisione norvegese e danese. “Brøken” in norvegese vuol dire “frazione” o “frammento”. (IMDb)
Per la regia di Sean Ellis, The Brøken è un film del 2008, una produzione indipendente che da circa due anni viene presentata in giro per il mondo nel circuito dei festival internazionali del cinema -Sundance, Sitges, Bruxelles, etc…- e, fino a fine 2009, nelle premiere per l’uscita dell’edizione in DVD.
Udite udite, è stato proiettato persino in Kazakhistan, ma non in Italia, dove, a questo punto, non uscirà mai, se non in qualche sfigatissima terza serata di “notte horror”.
Non voglio mentirvi, è un film scuro, silenzioso, poco dialogato e, almeno per la prima mezz’ora, piuttosto moscio. Curatissimo, questo è vero, nelle riprese, alle quali giova anche una ricercata qualità della luce, spesso naturale.
Difficile capirci subito qualcosa, specie se si è costretti a guardarselo in inglese, privo anche di sottotitoli. Ma, come ho già detto, si parla poco, ragion per cui la differenza di lingua si nota appena.
Apparentemente, il tutto inizia come uno di quei maledetti thriller psicologici, complice anche il poster col disegno di un cranio di donna aperto e frammentato che sembra alludere alla solita analisi introspettiva di una qualche probabile patologia psichica. Dai, sapete benissimo di cosa parlo. Quei film che scavano, scavano, scavano nella follia galoppante dei protagonisti. Quei film intimisti, visionari, kafkiani, oserei dire, patinatissimi, ma, allo stesso tempo, pallosissimi.
Già, sembra di finirci dentro con tutte le scarpe. Attori seri, serissimi, che interpretano personaggi seri, serissimi, in scene altrettanto serie, serissime, persino quando dovrebbero rappresentare situazioni di quotidianità familiare. Che, a pensare di vivere in una famiglia così, uno correrebbe a comprarsi subito una pistola.
Tra gli attori, l’unica -che poi è la protagonista- che conosco è Lena Headey, che ho/abbiamo ammirato in 300 come la Regina degli spartani e, io personalmente -non so voi altri- ho apprezzato in Terminator: the Sarah Connor Chronicles, nel suo tentativo, riuscito secondo me, di strappare a Linda Hamilton, la figura, a suo modo leggendaria, della madre di John Connor, il futuro leader della Resistenza contro Skynet e bla bla bla…
Tornando al film, sembra di precipitare in un polpettone di quelli pesanti e soporiferi. Intorno al minuto diciotto, però, si assiste ad una scena interessante, che riesce a… svegliarvi, nel caso vi foste addormentati. Che poi si vede anche nel trailer.
Gina McVey (Lena Headey) vede sé stessa guidare un’auto.
[ATTENZIONE! CONTIENE ANTICIPAZIONI!]
Abbastanza sorprendentemente, il film a questo punto si trasforma, diviene un horror sovrannaturale, lento ma sopraffino, sull’archetipo del doppio. The Brøken è infatti incentrato sulla simbologia dello specchio, uno dei motivi più affascinanti del folklore e dei miti popolari.
Lo specchio è, da sempre, porta sulle altre dimensioni, parallele, ma opposte, dimore di esseri identici a noi, ma privi di anima, che tentano di sostituirci, veicolo del demonio che irride la nostra vanità, scaturigine dell’infinito. Uno degli incubi ricorrenti più spaventosi è, infatti, quello di specchiarsi senza riconoscersi, oppure accorgersi che il proprio riflesso non segue i nostri stessi movimenti, ma agisce di propria volontà.
Lo specchio diviene il leit motiv del film, così come i suoi frammenti. Riesce ad essere inquietante nei suoi riflessi e nei suoi stacchi, allorché, inevitabilmente ci si domanda se e quando il riflesso, il doppio, si ritorcerà contro l’originale.
The Brøken è una sequenza di scene fortemente simboliche, alcune sottilmente inquietanti. Si basa più sull’impatto scenico che sull’azione. Più introspezione che aperta riflessione, quest’ultima lasciata letteralmente alle superfici riflettenti, con un gradevole sopresa nel finale.
Certamente non per tutti i gusti. Io stesso non esito a definirlo abbastanza noioso in alcuni passaggi e banalmente ripetitivo, con la sequenza di un incidente d’auto ripetuta, ad esempio, almeno sei volte per alludere allo shock post traumatico della protagonista. Un film che si esprime più attraverso le immagini, mute e silenziose, come dicevo, che attraverso gli attori, la cui recitazione è stata come imbrigliata. Nonostante questo, la pellicola affronta in modo non banale un tema fascinoso come pochi, riuscendo, alla fin fine a mettere in piedi uno spettacolo intrigante.
Forse la regia avrebbe potuto e dovuto essere più incisiva. Bello, curato e gradevole, non per tutti, piuttosto per i palati fini, ma si sarebbe potuto fare molto di più.