“Io dico che quegli uomini che scaricano cartoni di sottaceti, gamberetti e tovaglioli di carta sono il nesso tra noi e il mondo reale. E’ plausibile, in ogni modo. Su cos’altro possiamo basarci?” (Ragle Gumm)

Alcune volte mi sento come Ragle Gumm. Al centro di un mondo che non mi appartiene, costantemente assalito da ricordi, immagini, pensieri, tracce di una realtà molto più grande e complessa, rispetto alla mediocre tranquillità di ciò che mi sta intorno. Poi tutto svanisce, per ritornare consueto e ovvio…
Ragle Gumm è il protagonista di Tempo fuor di Sesto (Time out of Joint), romanzo del 1959 di Philip K. Dick. Egli è l’infallibile vincitore di un concorso edito da un quotidiano intitolato “Dove si troverà l’omino verde?“, basato sulla risoluzione di un’enigma giornaliero, tramite indizi nascosti disseminati sullo stesso giornale. I premi in denaro consentono al signor Gumm di vivere una vita agiata e tranquilla, non troppo lussuosa, a dire il vero, a casa della sorella Margo, di suo cognato Vic, proprietario di un supermercato, e di suo nipote Sammy che si diverte a montare apparecchi radiofonici per intercettare le comunicazioni degli extraterrestri.
Siamo negli anni ’50 e il mondo si chiede ossessivamente non se, ma quando cadrà la bomba sganciata dai Sovietici. Le stazioni di benzina hanno colori sgargianti e brulicano di oldsmobile e di cadillac e la società, nonostante la crisi economica e la paura, gode di quello stile di vita semplice, ma sereno, al limite del noioso, prevedibile, ma anche sano, in un certo qual modo. Di fronte alla loro villetta, la tipica casa con prato verde e capanno per gli attrezzi da giardino sul retro, abitano i Black; lui, Bill, impiegato sempre fuori per lavoro, lei June, o Junie, come la chiama Ragle, giovane mogliettina attraente e annoiata che si lascia corteggiare dal suo vicino Ragle, ricco e famoso grazie alle innumerevoli vittorie nel concorso, che, quando non è impegnato a risolvere i suoi indovinelli, ciondola nei paraggi ben conscio dell’attrazione reciproca.
Eppure, qualcosa non torna in questa vita piccola e metodica. Chi è Marilyn Monroe? Possibile che nessuno si ricordi di lei? E perché, al contrario, tutti sembrano conoscere Ragle Gumm e essere interessati a ciò che fa?

Una sensazione di deja vu a volte, o, al contrario, di straniamento, sembra raggiungere, di tanto in tanto, il flusso di pensiero dei protagonisti, quasi volesse mettere in dubbio la veridicità del tessuto stesso che compone il loro reale che si stende presentandosi loro come il più ovvio dei possibili scenari, dal quale è impossibile fuggire…
Dick è lo scrittore. Difficile, onirico, alterato e alienato. Drogato, anche. E tutto questo compendio di caratteristiche preziose, che ogni buon scrittore dovrebbe avere, così come il fegato spappolato di Bukowski, si sente nella sua prosa, asciutta sì, ma complessa. E quel suo modo impareggiabile di tratteggiare la fatuità dei suoi protagonisti, il loro distaccamento progressivo, la loro presa di coscienza di ciò che è reale e ciò che non lo è avviene gradatamente, quasi dispiacendosi che, nelle ultime 30 pagine ci venga svelata la verità. Sempre in bilico tra follia e possibili realtà, filosofeggiando con incredibile leggerezza ed eguale efficacia sul biblico potere creatore della parola, Dick parte da scene di vita familiare, da personaggi assolutamente normali per farci sentire la loro confusione crescere, man mano che il loro piccolo universo, quella Old Town dove hanno sempre vissuto, diviene il centro di una cospirazione crudele, ma necessaria perché, intorno a quel piccolo villaggio, la vita e le pretese dell’intera specie umana sono in discussione.