Da sempre, qui sul blog, iniziando a parlare di una questione in toni informali (ché quando mi girano, mi girano…), si è dato l’avvio a discussioni interessanti spalmate su più articoli.
Parlavamo ieri, nell’articolo su La Ragazza di Fuoco, di immagine, commercializzazione e vendita della stessa, più che del prodotto.
Mi sono venute in mente due cose:
1) affrontammo già la questione, con la partecipazione di un grafico di professione, il mio amico Luca, che creò per me e per altri dei biglietti che ci identificavano – e di conseguenza ci presentavano al pubblico – attraverso le marche dei prodotti da noi usati nel quotidiano
2) Syrup (2013), un film avente per protagonista Amber Heard, per la regia di Aram Rappaport, tratto da una commedia di Max Barry (a sua volta ispirato a reali manovre di marketing avvenute nel 2006), che straordinariamente ha rappresentato un’ipotetica campagna di marketing pubblicitario, poi ripresa nel mondo reale da una grande marca di bevande.
Questo il mio cartello, o biglietto da visita. All’epoca mi facevo ancora chiamare elgraeco (per i nuovi lettori, la storia dell’evoluzione del mio nickname la facciamo un’altra volta, ok?) e quelle erano alcune delle marche che usavo all’epoca, e che uso ancora.
Da quell’elenco, in teoria, una persona perspicace può individuare e interpretare il mio stile di vita, persino il tenore. E quindi propormi di conseguenza pubblicità mirate per l’acquisto di prodotti affini.
Syrup è un film mediocre, ovvero nella media, senza infamia e senza lode, e io consiglierei di vederlo, se non altro, per la seguente scena:
Ammirare Amber e sentire la sua vera voce non ha prezzo… è ipnotica.
Ma torniamo al film, Syrup, come da titolo, è la storia di uno sciroppo, ovvero di una bevanda zuccherata (e energetica), e della campagna pubblicitaria creata da due creativi (tra cui la stessa Amber) per venderla e farla diventare la bevanda più popolare del pianeta.
Ma non tutto è così semplice, e qui entra in gioco la narrativa: all’inizio, il collega di Amber, interpretato da Shiloh Fernandez, commette l’imprudenza di confidare al suo migliore amico, Kellan Lutz, l’idea per il nuovo brand analcolico, la bibita Fukk (nome che richiama alla mente quella parola lì; così concepito perché una sera, aprendo il frigorifero mentre era mezzo assonnato, Shiloh s’è lasciato sfuggire la lattina dalle mani esclamando “Fuck!”, e ha deciso di associare il nome alla bevanda); Kellan, il giorno dopo, brevetta il nome Fukk e diventa così proprietario della bevanda che nel giro di pochi mesi conquista il mercato.
Ma succede di più: per sponsorizzare la Fukk si ricorre a qualsiasi mezzo, compresi spot pubblicitari in cui un ragazzo muore schiacciato da un distributore esclamando sempre la benemerita parola.
E persino alla simulazione di una morte avvenuta nelle medesime circostanze, con una finta causa intentata dalla famiglia del deceduto all’azienda produttrice della bevanda. Tutto purché se ne parli, giusto?
Ma non finisce qui: perché Shiloh ovviamente si prende la rivincita e insieme a Amber crea una nuova bevanda, stavolta identificata da numeri e nomi propri, venduti da principio solo alle star.
In pratica, Paris Hilton prende il 28 (mi pare, non ricordo il numero esatto), e la lattina numero 28 da quel momento avrà il nome Paris, stampato sul fianco. E via via tante altre star e gente famosa.
Non vi ricorda qualcosa?
Esatto, la Coca-Cola sta facendo da mesi la stessa cosa, nel mondo reale: le lattine personalizzate.
Cosa succede nel film? Succede che un ragazzo, sentendosi un fallito perché non potrà mai avere la sua lattina personalizzata, si toglie la vita.
Questa volta per davvero.
E per davvero la famiglia intenta causa all’azienda, rovinandola.
Ora, Syrup e vicende melodrammatiche a parte, la cosa interessante è che nel film, sempre per voce di Amber, sono illustrate, sommariamente, ma in maniera efficace, le regole alla base della commercializzazione di un prodotto:
– non importa cosa si sta vendendo. Nel film si vuol vendere una bibita zuccherata, ovvero uno sciroppo.
– non importa il gusto della bevanda. Di quello se ne occuperanno i chimici, che svilupperanno la formula in laboratorio.
– importa solo ed esclusivamente l’immagine del prodotto: ovvero la veste grafica. Che prevede il colore, il font e il nome. E, oltre a questo, il modo in cui essa viene presentata al pubblico, ossia venduta.
Tutte le aziende produttrici di bevande vendono sciroppi. Quelle che ne vendono di più sono coloro che li presentano meglio.
Il sapore, se quella bevanda sia o meno salutare o anallergica etc… sono elementi secondari.
La gente, o la maggior parte della gente, comprerà quello sciroppo solo e soltanto per il suo nome.
E ne scarterà un altro, magari migliore, per la stessa ragione, perché forse non ha un look accattivante.
Non faccio il grafico di mestiere, né mi occupo di campagne pubblicitarie, quindi i miei ragionamenti sono solo dettati dall’osservazione, dall’informazione e dal senso critico:
– trovo però quanto meno singolare questa corrispondenza tra film e realtà.
– e trovo l’intera questione dei brand leggermente inquietante, proprio nel momento in cui il cliente rinuncia all’informazione consapevole circa il prodotto che sceglie di acquistare perché mosso esclusivamente dal potere seduttivo che quel prodotto esercita, perché “si presenta meglio”.
Non credo di poter aggiungere altro a questa discussione, ma sarei interessato a sentire il vostro parere in merito.
Ciao a tutti. Un abbraccio, Hell. (cit.) XD