Nel pilota di Caprica, la serie generata da Battlestar Galactica (2004), viene mostrata una partita di tennis tra due dei protagonisti. Ricchi, benestanti, opulenti e in un certo senso schiavi delle comodità, delle macchine delle quali si circondano e che li servono, sopperendo ai loro bisogni più elementari e rendendoli sempre più dipendenti da esse.
Stessa scena ho rivisto nel pilota di Survivors, serie televisiva trasmessa dall’emittente inglese BBC a cavallo tra il 1975 e il 1977.
Abby Grant (Carolyn Seymour) si allena giocando a tennis con l’ausilio di una ball-machine che le fa da avversario. Ella è una ricca signora inglese che possiede tutto ciò che si può desiderare. E con ciò mi viene in mente un’altra frase in particolare, perfetta per l’occasione: “è incredibile quanto si può fare a meno dell’essenziale, quando si ha a disposizione il superfluo”.
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Figlia dei suoi tempi
Terry Nation è l’ideatore di Survivors, nonché l’ottimo sceneggiatore dei 13 episodi che compongono la prima stagione. Al tempo, Nation fu accusato di aver rubato l’idea alla base della serie ad un suo collega, Brian Clemens, che l’aveva concepita e registrata alla Writers’ Guild of Great Britain.
Accuse e polemiche a parte, Survivors è un prodotto esemplare della tensione e dei conflitti irrisolti dei suoi tempi: la costante minaccia nucleare, la lotta politica e di classe, il terrorismo, che aveva toccato il suo apice nei fatti di Monaco nel 1972, la scia di sangue che ne scaturì negli anni a seguire, la guerra fredda, e in generale, quel senso di vacua incertezza e indeterminazione, tipico di una società sull’orlo dell’autodistruzione. L’atmosfera e la dimensione stessa della vita dell’epoca spingevano a domandarsi cosa sarebbe accaduto dopo, nel caso di una catastrofe planetaria. Come si sarebbe potuto andare avanti? Come avrebbero vissuto i superstiti, dopo, nel vuoto lasciato dalla civiltà? In un mondo popolato ora più che mai da gente comune, incapace, perché semplicemente ineducata a sopravvivere secondo quelle tradizioni oramai dimenticate, preferendo conoscenze sempre più dedicate e sempre più astratte e lontane dal materialismo oggettivo?
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Catastrofe batteriologica
Da scene di anonima quotidianità, da voci alla radio, dai disservizi e dalle comuni difficoltà che questi comportano ai pendolari, nasce questo spettacolare telefilm.
Seguiamo le vicende, in rapido progresso, di due donne, Abby Grant (Carolyn Seymour) e Jenny Richards (Lucy Fleming) e un uomo, Greg Preston (Ian McCulloch), che vivono in una società, quella inglese nella fattispecie, ma chè è specchio del resto del mondo, investita da una pandemia inarrestabile.
La disinformazione e la superficialità, ma anche lo scetticismo della gente, sono più che naturali, direi quasi ovvi, in presenza di un contagio di fronte al quale si assume un atteggiamento dubbioso, di difesa. Perché si stenta ad accettare la realtà.
E la realtà è che quel virus non è una banale influenza, ma qualcosa di sconosciuto che, nel giro di qualche settimana, avrebbe decimato il 98% della popolazione terrestre.
Come per ogni malattia, alcuni esseri umani possiedono delle naturali immunità, o, seppur contagiati, riescono a superarla grazie al loro sistema immunitario. Abby, sopravvissuta al marito, Jenny alla sua coinquilina e Greg a sua moglie, sono tra i pochissimi superstiti che il giorno dopo, si trovano ad affrontare panorami di desolazione lasciati da una società allo sfascio.
La passeggiata di Abby tra le viuzze del sobborgo residenziale di campagna dove abitava, mentre esplora i dintorni silenziosi è clamorosamente evocativa per tutti i [futuri] film apocalittici. Nella tranquillità sonnacchiosa dei paesaggi della campagna inglese, si esprime al meglio l’epitaffio dell’umanità che non ha lasciato altro che tombe.
I tre protagonisti si aggirano tra le campagne, stando ben lontani dalle città, impraticabili per le malattie e il tanfo dei milioni di corpi in decomposizione, incrociando gli ultimi scampoli di umanità perduta, i rari altri superstiti, ognuno con ambizioni personali che variano dal semplice lasciarsi vivere alla ricostituzione di una forma di governo sulla base del fatto che, in passato, si era ricoperta una carica pubblica.
Un viaggio nel tentativo di assicurarsi viveri e con l’assoluta e primaria necessità di riorganizzarsi per assicurare un futuro ai pochi bambini scampati al disastro e alla stessa razza umana.
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Realismo e coerenza
Uno degli aspetti più piacevoli e che mi costringono a giudicare questa serie quasi perfetta è la sua capacità di avermi sorpreso e di aver risposto ai miei silenziosi interrogativi con scene esplicative che andavano immediatamente a coprire, incredibilmente, i dubbi e le perplessità che sorgevano durante la sua visione. E, soprattutto, il realismo col il quale viene descritta l’ambientazione distopica.
Se poi ci si ricorda che è una serie che ha più di trent’anni, la meraviglia può solo aumentare.
Per coloro che non la conoscono e che, magari, vorranno recuperarla, devo chiarire un aspetto fondamentale:
non c’è [molta] azione, non c’è fantascienza, non c’è soprannaturale o interventi misteriosi e/o complottistici alla maniera di Lost.
Almeno in questa prima stagione.
Lo spettacolo è interamente basato e garantito sul leit-motiv della sopravvivenza, come da titolo.
I sopravvissuti devono evitare le grandi città, perché sede di molteplici malattie. Devono reimparare i mestieri più semplici, cacciare, coltivare, fabbricare candele di cera, conciare le pelli. Un mal di denti ritorna ad essere una malattia potenzialmente letale. E devono, soprattutto, vedersela con gli altri superstiti, non tutti disposti a cooperare, che danno libero sfogo alle loro rispettive meschinità, in perfetto stile Miserabili. “Mors tua vita mea”, è proprio il caso di dire.
I protagonisti, inoltre, non rappresentano macchiette delle rispettive classi sociali, alle quali pur appartengono e che danno solitamente vita ad antipatici e inutili confronti di stampo moralistico.
Si tratta della riuscita rappresentazione di individui normali, differenti tra loro, colti da un fenomeno incoercibile che devono, dalla sera alla mattina, rivedere completamente non solo il loro modo di vivere, ma lo scopo stesso della loro esistenza. In un mondo che, privo di ogni infrastruttura sociale, non ha più futuro, se non quello del vivere secondo natura.
Non ci sono dialoghi banali, né scene d’azione impossibili quanto ridicole. Ci sono scontri ed avvenimenti anche piuttosto cruenti e crudeli, ma questi sono gestiti con maestria e sobrietà. I personaggi malvagi, alcuni dei quali insospettabili, lo sono fino in fondo, compiendo ogni genere di efferatezze e tradimenti. I vigliacchi sono tali fino alla nausea, come da essi è bello aspettarsi. I restanti imparano a combattere, oppure finiscono per morire della loro stessa ingenuità, o, a volte, commettono imperdonabili errori, per quanto in buona fede. Si arriva a compiere scelte tragiche e spietate per assicurare la semplice sopravvivenza, si arriva ad abbandonare persone disabili e ammalate applicando cinicamente la selezione naturale, condita da sano egoismo e meschinità. Si arriva a giustiziare innocenti e a risparmiare i colpevoli per questioni di mero calcolo economico. Sotto certi aspetti, un affresco tristemente umano che rasenta il capolavoro.
Quella stessa maestria che è stata capace di rappresentare un’apocalisse senza, di fatto, mostrare alcunché. Non vi sono, infatti, panoramiche di città disseminate di cadaveri. Neppure questi ultimi vengono mostrati chiaramente. Se ne intuisce, piuttosto, la presenza, allorché i protagonisti si lamentano del cattivo odore, oppure scorgendone le sagome nei letti, sotto le coperte.
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Il colore
Un’ulteriore fonte di fascino per il sottoscritto deriva dai colori e dalla luce che caratterizzano le riprese. Per esigenze di copione, ma anche per limitare i costi, venne scelta un’ambientazione campestre. La campagna inglese è di un verde lussureggiante, ma sotto un pallido sole, che immediatamente pone il tutto sotto un velo di flebile speranza. Il cielo grigio, quasi sempre gravato da nubi, contribuisce a dare l’idea della fine del mondo. Quel grigiore che finisce per riflettersi anche sui volti degli attori, giustamente tesi e affranti, quando non spaesati. Essi assumono un colorito normale solo attorno ai falò, quando il fuoco restituisce loro il calore.
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Conclusioni
La serie è stata oggetto di rifacimento, nel 2008, ad opera della BBC America, ed è tuttora in corso. Non ho idea se sia valida o meno. In ogni caso, prima di prenderla in esame, vi consiglio di vedere quella del 1975. La seconda e la terza stagione di questa sono difficilmente reperibili, per cui passerà del tempo prima di affrontarle in altri articoli dedicati.
Survivors è una serie indubbiamente bella, valida, con tematiche adulte, una regia e una recitazione essenziale. Direi quasi che l’aggettivo che meglio le si confà è spartana, escludendo l’accezione negativa che solitamente lo caratterizza.
In ogni caso, un grande spettacolo, una serie meritevole come poche.
approfondimenti:
Scheda del telefilm su IMDb