Ecco qualcosa che ti cambia il piano d’azione. Stamattina tutt’altre idee in testa. Però come si può far finta di non vedere? Un po’ più di dieci anni fa moriva Stanley Kubrick. Oggi che ricorre la sua nascita voglio scriverci su.
Da dove cominciare? Kubrick nacque, crebbe, invecchiò e, improvvisamente, morì. Una biografia uguale a quella molti altri. Non è di lui essere umano che voglio scrivere, né di tutta la sua opera, perché prima di tutto non ritengo di essere in grado di farlo adeguatamente e con la qualità che la materia richiede, secondo perché, nonostante le apparenze e le dicerie di quelli che fanno finta di conoscermi, non sono arrogante quanto sembro, anzi, come in questo caso, pecco spesso di immotivata modestia.
Della stessa modestia di cui, forse, peccava Stanley Kubrick agli inizi della sua carriera, quando, dopo aver confezionato qualche filmetto giudicato interessante dalla critica contemporanea, accettò di subentrare nella regia di Spartacus (1960), assecondando la richiesta del divo Kirk Douglas che, da stella hollywoodiana e da produttore, si era preso la libertà di licenziare il regista Anthony Mann e di offrire la sedia al nostro che, di buon grado, accettò.
Probabilmente, Kubrick si vergognò sempre in privato di questa sua decisione; durante la maturità, infatti, non mancò mai di “disconoscere” quel polpettone indigesto infarcito di retorica americana e pur tuttavia già allora considerato uno dei vertici del genere storico al cinema, nonostante sia pieno di inesattezze e di deformazioni di significato causate da un’inappropriata intromissione della politica che voleva fare, a tutti i costi, dello schiavo ribelle Spartaco un martire della libertà in senso assoluto e assolutamente anacronistico agli occhi di coloro i quali la storia la conoscono per quella che è.
Per fortuna, per noi spettatori e poi per lui, Kubrick riuscì a rendersi indipendente, gradualmente, in un modo caparbio e allo stesso tempo distaccato e ad imprimere, lui che aveva iniziato come fotografo, la sua ottica fredda e perfetta a tutto il suo universo cinematografico.
Egli ha prodotto poco, se paragonato ad altri, e molto lentamente. Era calmo e metodico, ossessionato dalla perfezione dell’immagine che doveva da sola bastare a raccontare, a trasmettere, a formare.
2001: Odissea nello Spazio (2001: A Space Odyssey, 1968): un viaggio nelle immagini, alcune delle quali di impatto incredibile, altre generate da viaggi lisergici, nella storia, nella violenza insita nell’essere umano e nella costante ricerca di autodeterminarsi, superando i propri limiti. Concepito a partire dal 1966 e distribuito un anno prima dello sbarco sulla Luna, costato dieci milioni di dollari dell’epoca, di cui sei per gli effetti speciali, per mostrare la nascita della “coscienza” nella scimmia-uomo, ad opera del Monolito, e la sua evoluzione fino alla civiltà spaziale, attraverso lo stacco allo stesso tempo più spettacolare e assoluto della storia del cinema.
L’Alba dell’Uomo
Il Monolito. Quel solido opaco e silente, stolido e incomprensibile nella sua immobilità, fastidioso e terrificante allorché emette quel suono che è insieme solenne e terribile, che appare nella storia dell’uomo in coincidenza con i momenti più importanti nella sua evoluzione, dalla preistoria allo spazio e oltre l’infinito fino a che questi non trascende la sua stessa mortalità, fatta di carne e sangue, e si trasfigura in un feto cosmico che è tutt’uno con l’essenza dell’universo.
E quest’odissea è quasi completamente mostrata attraverso immagini mute, perché ci si trova nel vuoto e nel silenzio dello spazio profondo, intorno al pianeta Giove, a bordo di un’astronave dove si svolge la lotta all’ultimo sangue tra l’uomo, ai confini del proprio essere, e l’intelligenza artificiale fin troppo umana, invidiosa, paranoica e vendicativa, Hal 9000, il supercalcolatore il cui nome rappresenta la fusione dei due principali metodi di conoscenza e comunicazione, l’euristico (heuristic) e l’algoritmico (algorithmic). Nelle quasi tre ore di durata, le parti dialogate si riducono ad una quarantina di minuti proprio perché ritenute superflue e meramente accessorie allo scopo. La riflessione sul superamento della natura umana, causato più che favorito dal monolito (di volta in volta interpretato come essenza divina, intelligenza aliena), incarnazione stessa della volontà dell’uomo di oltrepassare sé stesso, seguendo in ciò gli scritti di Friedrich Wilhelm Nietzsche particolarmente graditi al regista durante la sua giovinezza, è pienamente espressa dalla tacita filosofia che trasuda da sequenze di immagini perfette.
Sarebbe bastato 2001: Odissea nello Spazio a fare di Kubrick uno dei più grandi cineasti di tutti i tempi, ma egli ha esplorato non solo la natura umana, la sua violenza e la sua crudeltà di fondo (Arancia Meccanica – A Clockwork Orange, 1971), a partire da questo periodo una costante nel suo lavoro, ma anche la cinematografia cimentadosi in ogni genere, arricchendo, innovando, rivoluzionando.
In Barry Lyndon (1975) utilizzò solo luce naturale (di candele) per le riprese degli interni grazie all’impiego di un obiettivo lo Zeiss Planar, prodotto per la NASA che era in grado, attraverso l’ampiezza della sua apertura di catturare un’incredibile quantità di luce e, allo stesso tempo, negli esterni ottenne risultati eccellenti nella profondità di campo e nella messa a fuoco dei dettagli tramite l’utilizzo di potenti teleobiettivi, perché era nelle sue intenzioni l’idea di mostrare immagini che fossero il più possibile aderenti a quelle che erano, nei quadri dell’epoca, le vedute settecentesche.
Kubrick trasse spunto da opere mediocri per produrre film di genere rivoluzionari. The Shining (1980) diviene da semplice horror metafisica del terrore. E’ la luce, calda, non più il buio, a celare l’orrore. Esso viene pienamente ed efficacemente nascosto e poi mostrato, non suggerito, in una serie di sequenze memorabili: tra le tante, la scena della morte di Halloran, ucciso da Jack con un colpo d’ascia in pieno petto, avviene sotto l’unico lampadario illuminato della hall, parzialmente al buio; ancora la luce… La pazzia di Jack Torrance (Jack Nicholson), le grottesche e oscene presenze dell’Overlook Hotel, le capacità sensoriali del bambino, la lotta fiabesca tra mostro e fanciullo, il simbolismo, in particolare il labirinto che è insieme vero labirinto di siepi e labirinto della mente, i ricordi, gli avvenimenti, le “tante cose non proprio giuste” capitate nei corridoi illuminati dell’hotel, l’enigma finale che vede Jack già custode dello stesso albergo ai tempi della sua apertura, tutto avviene in piena vista.
Il Sonno della Ragione genera mostri
La natura umana è fondamentalmente ambigua, incompleta, contraddittoria e, in definitiva, lontana da quel superamento verso l’autodeterminazione auspicato nel 1968. La guerra (Full Metal Jacket, 1987) è ancora stupidamente presente, è una necessità assurda e incomprensibile cui non ci si riesce a sottrarre. Essa svilisce, facendosi confusa, quasi impercettibile, tanto che, alla fine, non si è capaci di distinguere il bene e il male, quasi che l’essere umano sia per la maggior parte del tempo immerso in un perenne stato onirico (Eyes Wide Shut, 1999), vittima di illusioni, di equivoci.
Alla fin fine l’uomo, il senziente, è quasi banale.
E uno qualunque, uno che si rende conto di ciò che accade o che solo l’intuisce è spinto dall’esigenza di mostrare agli altri quello che vede. E lo fa.
L’ha fatto. Per tutta la sua vita.
(1928-1999)