Paolo Sorrentino in Youth – La Giovinezza ci mostra la danza corale delle piccole cose. Dettagli. Ho sempre pensato che il suo sguardo riesca a rendere interessante anche il più anonimo dei personaggi, delle figure.
Il casting funziona, sa nominare i sosia, gocce d’acqua di calciatori famosi, sa scegliere una modella con le orecchie a sventola e l’apparecchio che, accompagnata dalla musica e dalla fotografia lattea sarà la nostra musa della giovinezza, ancor più di Miss Universo, che si concede due passerelle, una onirica in una Piazza San Marco inondata d’acqua e luci, e l’altra in una vasca termale, scena richiamata dall’orrida locandina.
Ecco, credo che Youth sia stato danneggiato dal marketing, stavolta.
Ho sentito che in TV passava come “l’ultimo capolavoro” di Paolo Sorrentino.
Brutta cosa. Quando si comincia a sfornare un capolavoro dietro l’altro vuol dire che si arranca.
E poi il trailer, che banalizza con la battuta sulle emozioni quella che è forse una delle scene più intense. Come al solito, fuori contesto una frase perde tutta la sua potenza.
Il fatto è che è difficile, ne do atto, montare un trailer di questo film, che è il canto della vecchiaia.
Una vecchiaia fatta di un presente incomprensibile.
Si invecchia senza una ragione, col carico di ricordi che sbiadiscono, spesso uccisi da un presente scarno.
Youth è un confronto di ogni età. In questa clinica del benessere svizzera c’è gente d’ogni età, e a ognuno di essi è affidato un piccolo frammento di percezione del presente.
Una battuta o sequenza ho trovato retorica, quando Harvey Keitel guarda il panorama delle alpi svizzere attraverso un binocolo e, rovesciandolo, mostra la vista della vecchiaia alla sua allieva sceneggiatrice: una vista lontana sul passato, visto che il futuro s’è ridotto a poche briciole e a echi di glorie lontane.
Ma è breve, e non interrompe la danza.
Michael Caine e Harvey Keitel sono due vecchi, uno direttore d’orchestra in pensione, l’altro regista alle prese col suo, forse, ultimo film.
E poi Rachel Weisz, la figlia/assistente di Caine, uno scalatore di montagne col look da santone, Paul Dano, attore californiano condannato dalla memoria del suo personaggio più famoso, l’unico per il quale venga ricordato e… Diego Armando Maradona.
Che non viene mai nominato, ma interpretato da un sosia, con un gigantesco tatuaggio di Marx sulla schiena, mancino, enorme nel peso e nella circonferenza addominale, che palleggia con una pallina da tennis, col suo piede sinistro, la dispnea e le bombole d’ossigeno accanto, alla bisogna.
Esistenze banali di esseri umani speciali, probabilmente, alcune delle loro visioni abbiamo vissuto anche noi, spoglie d’ogni cornice e prive di una colonna sonora magnifica.
I giorni passano, i ricordi s’accumulano, alcuni sbiadiscono, vengono sepolti o messi da parte, rievocati da un profumo, da una melodia.
E sembra quasi inevitabile che, alla fine, coesistano: le nuove gioie ci rammentano dell’eterno ritorno, vecchi dolori si sovrappongono alla felicità presente e viva.
E cominci a notare cose che prima ti passavano accanto senza che le vedessi: coppie di anziani, che ancora sfogano sentimenti da loro stessi percepiti come violenti, e vacui, ma che li fanno sentire vivi.
Ragazze che portano a passeggio i cani…
Gente che corre per tenersi in forma, illudendosi di rallentare l’inevitabile.
Sanza tristizia è la morte ch’è ne la vecchiezza
La tristezza è tutta nella gioia di vivere.